In occasione dell’8 marzo scorso, Laura Boldrini, portavoce dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati disse: <L’icona dei nostri tempi è la donna migrante: una donna che si sacrifica, che abdica al suo ruolo materno, che ipoteca la sua vita in nome del benessere della sua famiglia; insieme a lei la donna rifugiata, che scappa dal proprio paese e che, nella sua nuova destinazione, è spesso costretta a scegliere fra il lavoro e i figli. Sono le donne che permettono a noi donne del Nord del mondo di fare la nostra vita e la nostra carriera>.
A proposito dei rapporti fra donne del Nord e del Sud del mondo, continua la Boldrini, <non avremo ottenuto una vera emancipazione se non portiamo alla parita’ dei diritti anche quei tre quarti di donne del Sud del mondo che ancora oggi non hanno parita’ di diritti neppure sulla carta>.
Al recente convegno a Milano su “L’invecchiamento al femminile” organizzato da O.N.D.A.(Osservatorio Nazionale sulla Salute della Donna) la figura della “donna migrante” è stata portata all’attenzione del pubblico da Don Virginio Colmegna, Presidente della Fondazione Casa della Carità “Angelo Albriani” di Milano che ha affermato: <Se le donne migranti di Milano, per un giorno incrociassero le braccia, l’intera città si fermerebbe>. Dietro ogni storia – in 8 anni alla Casa della Carità sono state ospitate quasi 400 donne – si nasconde un volto di donne giovani e meno giovani, fragili e coraggiose che provengono da paesi stranieri sia per motivi politici che di povertà economiche.
<Per sottrarre alla miseria le famiglie – afferma Don Colmegna – sono partite madri che hanno lasciato i figli alle zie e alle nonne, mogli che hanno lasciato il marito, figlie che hanno lasciato i genitori per consentire alle loro famiglie d’origine un futuro migliore attraverso i guadagni del loro lavoro>. <Emigrazione femminile – continua Don Colmenga – significa anche vulnerabilità in quanto donna e contemporaneamente immigrata e connotata in termini culturali e religiosi che porta a una discriminazione multipla. Oltretutto spesso, le cosidette ‘badanti’ che assistono i nostri anziani e i nostri bambini sono in Italia senza permesso di soggiorno il che comporta l’esclusione dai normali circuiti di cittadinanza. Un’alta percentuale di donne straniere riesce ad arrivare in Italia attraverso il ricongiungimento famigliare: quindi è in qualità di moglie che la donna migrante divviene titolare di diritti>. <Partendo da un punto di vista istituzionale – conclude Don Virginio Colmegna – bisogna dare dignità a questa professione (badante), che da tempo sta sostituendo il nostro sistema di welfare, auspicando in un Albo professionale, magari a livello comunale, in cui le donne migranti si inseriscano con una dimensione di diritti e professionalità: questo genererebbe garanzia e qualità del servizio e garantirebbe loro una cittadinanza di diritti>.
Silvia Pogliaghi