Solo il 36% delle donne intervistate, nell’ambito di un’indagine epidemiologica dell’Osservatorio nazionale per la prevenzione dei tumori femminili, ha eseguito negli ultimi tre anni un esame per la prevenzione del tumore al colon-retto. Un dato veramente riduttivo se paragonato al 75% del pap-test e al 70% della mammografia. Le donne, dunque, ma anche gli uomini, fanno poca prevenzione per un tumore che colpisce più di 40.000 persone all’anno ed è al terzo posto, come incidenza, tra quelli femminili (dopo mammella e collo dell’utero) e al secondo negli uomini (dopo il polmone). Eppure si tratta di un tumore che, se individuato precocemente, può guarire nel 95% dei casi.
Viceversa, in presenza di metastasi, ha una mortalità elevatissima. Occorre però notare che, grazie all’integrazione della chemioterapia tradizionale con i nuovi farmaci biologici, tra cui bevacizumab che contrasta la crescita dei vasi sanguigni che nutrono il tumore rallentandone così la progressione, la mortalità per questo tumore si è ridotta nelle donne del 20% rispetto al 12% negli uomini. Sull’argomento si sono confrontati in questi giorni a Roma i più qualificati specialisti del settore.
<Le donne sono forse più attente alla prevenzione e si sottopongono, più degli uomini, agli esami di screening come la ricerca di sangue occulto nelle feci, proposta in tutte le Regioni e consigliata ogni uno/due anni dopo i 50, conferma il professor Alfredo Falcone, associato di Oncologia medica all’Università di Pisa. <Se il sangue occulto è positivo va eseguita subito la colonscopia. Individuare precocemente un tumore, che si forma quasi sempre da un polipo intestinale che degenera, vuol dire garantirsi una sopravvivenza nel 95% dei casi. Nei pazienti con malattia metastatica non si raggiunge il 9%. Esiste poi una categoria intermedia di pazienti che sopravvivono nel 70% dei casi>.
Questa aumentata sopravvivenza, quadruplicata rispetto a trent’anni fa, è oggi possibile grazie ai farmaci biologici, in particolare bevacizumab, considerato un farmaco “stabilizzatore” della crescita tumorale. <Somministrato per uso cronico, in quanto ben tollerato e senza particolari effetti collaterali, viene associato alla chemioterapia in quel 25-30% di pazienti che presentano già metastasi al momento della diagnosi e in quei pazienti che peggiorano in un arco di tempo che va da sei mesi a due anno> puntualizza il professor Alberto Sobrero, responsabile della Divisione di Oncologia medica dell’Ospedale San Martino di Genova. <Spesso, soprattutto nelle donne, si accentua la tossicità verso la chemioterapia che provoca nausea e astenia anche gravi e queste pesanti reazioni richiedono il cambiamento del farmaco chemioterapico. Al contrario, bevacizumab non dà particolari effetti collaterali: viene perciò mantenuto come terapia “cronica” e rallenta la crescita delle cellule tumorali, bloccando la replicazione dei vasi sanguigni che alimentano il tumore>.
In questi giorni all’Istituto Regina Elena di Roma è partito un nuovo studio (Pocher-2), in collaborazione con 12 centri oncologici italiani, per valutare un nuovo schema terapeutico composto da tre farmaci chemioterapici e l’anticorpo monoclonale cetuximab, per il trattamento di pazienti con metastasi epatiche non operabili, derivate da tumore colo-rettale.
di Paola Trombetta