<Avevo quattro anni quando ho iniziato ad avvertire i primi dolori al ginocchio, a volte così intensi da non riuscire a camminare>, ricorda Antonella Celano, oggi presidente dell’Associazione Persone con Malattie Reumatiche (www.apmar.it), che ha promosso la Campagna: “Difficile come bere un bicchiere d’acqua”, presentata in occasione della Giornata mondiale del 12 ottobre. <I medici dicevano che “fingevo” e mi inventavo questi dolori per attirare l’attenzione. Ricordo che la mattina, a volte, mi svegliavo e, oltre ai dolori, avevo le mani chiuse a pugno e la mamma provvedeva a massaggiarle con talco e acqua calda per riuscire ad aprirle. Eppure i medici, e persino gli ortopedici, avevano minimizzato i sintomi. Finalmente dopo 10 anni di peregrinare, mi avevano consigliato un reumatologo di Bari, il professor Pipitone, che aveva diagnosticato la mia malattia: si trattava di artrite reumatoide giovanile, una forma infiammatoria che consuma la membrana delle articolazioni, con conseguenti dolori e difficoltà di movimento degli arti, fino all’inabilità motoria. All’epoca si utilizzavano farmaci antinfiammatori e sali d’oro, molto costosi ma poco efficaci. E nel frattempo i dolori si erano estesi alle gambe, ai gomiti, alla mandibola. Avevo difficoltà a camminare ed ero così impacciata nei movimenti che, per essere a scuola alle otto del mattino, dovevo alzarmi dal letto alle sei per prepararmi. Impossibile dunque pensare di trasferirmi in un’altra città, di andare su e giù dai treni ed essere indipendente: ho dovuto rinunciare a studiare Psicologia a Roma, la mia grande passione. La malattia ha limitato i miei movimenti, ma non la mia volontà. Non mi sono mai arresa: mi sono informata sulle nuove cure e nel 2000, a 35 anni, sono approdata al Centro di Lecce dove mi hanno proposto una terapia sperimentale con i farmaci biologici. Da allora la mia vita è totalmente cambiata: questi farmaci sono molto efficaci perché bloccano il progredire dell’infiammazione e riducono notevolmente il dolore. Sono semplici da somministrare (una flebo per endovena ogni due mesi) e non danno particolari problemi, tranne i costi piuttosto elevati a carico del Sistema sanitario (14-15 mila euro all’anno per paziente): per questo non tutte le Regioni li rimborsano. La battaglia della nostra Associazione è proprio questa: consentire l’accesso a queste nuove terapie in tutte le Regioni e per tutti i cittadini che ne hanno necessità>.
Sarà questo lo slogan della Giornata mondiale dedicata alle malattie reumatiche, il 12 ottobre. Tante le iniziative e gli incontri in tutt’Italia promossi dall’Associazione persone con malattie Reumatiche: per informazioni: www.apmar.it.
Che cosa sono i nuovi farmaci biologici? <Sono molecole, frutto di studi di biotecnologia, che colpiscono, in modo mirato, un particolare fattore di necrosi tumorale (TNF) che potenzia l’infiammazione e l’erosione delle articolazioni>, spiega il professor Gianfranco Ferraccioli, ordinario di Reumatologia all’Università Cattolica di Roma e presidente del Gruppo Italiano di Studio sull’Artrite giovanile. <Bloccando il processo infiammatorio che porta all’usura delle articolazioni, si rallenta, e in molti casi si blocca, la progressione della malattia, eliminando anche il dolore. Un recente studio, coordinato dal nostro centro, su un migliaio di pazienti con artrite reumatoide, diagnosticata e trattata entro tre mesi dall’esordio dei sintomi, otteneva una completa remissione nel 50% dei casi; se diagnosticata entro 12 mesi, solo il 12% dei pazienti vedeva aggravarsi dopo un anno la malattia. Lo studio è particolarmente significativo se confrontato con uno analogo del 2002 in cui meno del 10% andava in remissione di malattia>. Da ricordare che l’artrite reumatoide è una patologia particolarmente invalidante e colpisce soprattutto le donne, a differenza delle malattie reumatiche che interessano entrambi i sessi e sono molto diffuse (4 milioni di persone). <L’artrite reumatoide interessa 500 mila persone circa, ma dopo 10 anni di malattia, oltre il 25% è però costretto, per l’aggravarsi dei sintomi, ad abbandonare il posto di lavoro, con conseguente tendenza all’isolamento e rischio di depressione>, fa notare il professor Giovanni Minisola, presidente della Società Italiana di Reumatologia e primario reumatologo all’Ospedale San Camillo di Roma. <Al contrario, se curata precocemente, consentirà alla persona di stare bene, di continuare a lavorare, non gravando sulla collettività. Per questo caldeggiamo che il riconoscimento come “malattia sociale” includa l’accessibilità per tutti alle cure più innovative, anche se costose,alla diagnosi precoce, consenta di ottenere permessi lavorativi per visite e cure e faciliti anche il compito dei caregiver di assistere i pazienti più gravi. Si dovrebbe poi imporre ai Centri di riferimento regionali la compilazione di un Registro dei Farmaci per monitorare i pazienti in trattamento e consentire loro di ricevere il farmaco più adatto, in base alle nuove ricerche, seguendo l’evoluzione della malattia nel tempo>.
di Paola Trombetta