Il 25 novembre è la giornata scelta dall’ONU (nel lontano 1999) per sensibilizzare contro la violenza sulle donne. In questa data sono state programmate, in ogni città, manifestazioni, incontri, proiezioni di film e video, spettacoli teatrali, reading, mostre, perché mai come quest’anno abbiamo assistito a un’inaudita escalation. I numeri li conosciamo: 105 le donne uccise solo nei primi 9 mesi del 2012, un omicidio ogni tre giorni. Nel 2011 ne sono morte 127, più della metà per mano di uomini conosciuti: mariti, fidanzati, ex partner. E sono oltre 7 milioni le italiane che almeno una volta nella vita sono state vittime di violenze, molestie, maltrattamenti, percosse, stalking e stupro. Eppure c’e la sensazione che la violenza sulle donne non sia percepita come un’emergenza sociale e culturale: tanto che c’è stato un formale richiamo da parte dell’Onu: l’autorevole voce di Rashida Manjoo, Special Rapporteur delle Nazioni Unite, solo pochi mesi fa, ha chiesto al Governo italiano “di rendere conto dell’inefficacia e superficialità nel trattare il problema per la prevenzione della violenza, la protezione delle vittime e la condanna dei colpevoli”, e ha chiesto che l’Italia si impegni a “intervenire sulle cause strutturali della diseguaglianza di genere e della discriminazione”. Ma a tutt’oggi il Parlamento non ha ancora ratificato la Convenzione di Istanbul (varata dal Consiglio d’Europa l’11 maggio del 2011) per combattere la violenza tramite la prevenzione, l’azione giudiziaria, il supporto alle vittime.
Sull’argomento abbiamo rivolto alcune domande a una donna impegnata da anni in questa lotta: Manuela Ulivi, avvocato, socia fondatrice e presidente della Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano, uno dei centri antiviolenza italiani di più antica storia, che ha promosso il convegno: “Le parole non bastano. Donne e uomini contro la violenza maschile sulle donne”.
Già nel titolo una bella provocazione a… voltare pagina
«Il messaggio è chiaro e nient’affatto scontato. Tutti oggi vogliono occuparsi di violenza: il tema è di moda, e sta avendo grande risonanza mediatica. Ma quello che serve davvero è un lavoro concreto, quotidiano, umile, e tenace. Serve una formazione specifica per gli operatori. Occorre una rete di competenze – servizi, medici, psicologi, servizi sociali – che complessivamente si faccia carico del fenomeno. Servono fondi certi per finanziare questo lavoro. Ecco, vorremmo che, nel momento in cui le donne vittime della violenza maschile trovano la forza e il coraggio di ribellarsi, possano avere un sostegno vero nelle istituzioni, che troppo spesso non sono pronte ad affrontare situazioni di disagio e le abbandonano a loro stesse. C’è bisogno anche di certezza e di gravità della pena. E di un saldo sistema di prevenzione. Per sconfiggerla davvero, occorre cambiare il modo di pensare di uomini e donne. Il cambiamento può venire solo da quelle donne e quegli uomini che hanno il desiderio di un nuovo rapporto tra i sessi, improntato sul rispetto e non su possesso, potere, controllo. Ecco il motivo del grande lavoro che stiamo facendo con l’associazione Maschileplurale».
Uomini contro la violenza dove siete? E’ questa la sfida di oggi?
«Sì, dietro la violenza c’è una grande questione maschile, che risale ai modelli culturali, familiari, di relazione che ci portiamo dietro. La violenza è il segno di una cultura che non ammette la differenza tra i generi, è l’espressione del potere diseguale tra donne e uomini che vede il femminicidio come la sua ultima, estrema, conseguenza».
In che modo ce la possiamo fare?
«E’ fondamentale il rinnovamento culturale. Molti uomini credono ancora che la donna sia una loro proprietà, molte donne, di contro, non hanno abbastanza fiducia in se stesse e non si rispettano. Le botte non possono essere confuse con un gesto d’affetto. Bisogna prendere coscienza che nessuno, se ci ama davvero, può farci del male. Nessuna donna dovrebbe mai sentirsi dire: “Stai zitta cretina!”.”O tu sei mia o di nessun altro”. Bisogna aiutare le donne a riconoscere la violenza evitando che la si giustifichi o tolleri in silenzio. Solitamente, dopo uno scatto d’ira, lui chiede scusa magari anche con frasi forti come: “Sono un mostro! Sto male! Solo tu mi puoi salvare!”. Lei pensa: “Mi ama davvero”. E tutto ricomincia da capo. La violenza va sempre crescendo, va interrotta subito prima che degeneri».
I dibattiti sono aumentati, eppure la violenza peggiora. Come si spiega questa recrudescenza?
«La violenza ci fa riflettere e cogliere la contraddizione di una società, che ci parla di quote rosa, di parità di diritti e, al contempo, riesce a trasmettere il messaggio della donna come di un semplice oggetto. È una società paradossale la nostra: pensiamo di vivere con uno standard alto dal punto di vista dei diritti delle donne, ma i fatti ci raccontano qualcosa di molto diverso. Essere donna, nonostante gli sforzi compiuti dal Movimento Femminista negli anni Settanta, ancora oggi vuol dire appartenere a uno stereotipo socialmente costruito da un punto di vista prettamente maschile. Più è alta la libertà della donna, più aumenta la reazione degli uomini (per fortuna non tutti). E la supremazia del ruolo maschile su quello femminile si afferma sempre più spesso con la forza: usata per minacciare, spaventare, violentare, in ogni caso per dominare! I delitti sono quasi sempre legati alla decisione della donna di troncare la relazione. E l’azione omicida scatta nel disoccupato del Sud come nell’imprenditore del Nord. Non dobbiamo trascurare un elemento antropologico: la violenza sulle donne ha una storia, una giustificazione sociale che l’ha fatta accettare per tanto tempo. È storia dei nostri nonni: fino al 1981 in Italia esisteva il delitto di onore… Ce ne siamo dimenticate, ma ha lasciato l’eco nel dna della società: i maschi che uccidono le donne hanno 20 e 30 anni, e sono di ogni ceto sociale ed economico».
E i modelli televisivi certo non aiutano a cambiare mentalità…
«I media purtroppo non aiutano a correggere una cultura radicata da tantissimi anni. Anzi, a volte, proprio i mezzi di informazione hanno speculato su tali vicende, spettacolarizzando le morti di donne innocenti e parlando di “omicidi passionali”, di raptus della gelosia , come se ciò fosse un’attenuante, come se un certo tasso di violenza sia alla fine tollerabile. Non c’è mai nulla di passionale nel massacrare una donna! E ogni volta si cerca il perché e il colpevole, con differenti accenti se le vittime sono “brave ragazze”. C’è una domanda che non va mai fatta a una donna che dice “lui mi maltratta, mi ha picchiato”: non si deve mai chiedere “ma tu cosa hai combinato?”. Perché ciò significherebbe giustificare, invece non esistono giustificazioni».
Il 70% dei casi di violenza avvengono dentro casa e quasi mai vengono denunciati. Perché?
«Ci sono atteggiamenti culturali che soffrono a dover accettare la famiglia quale prima sede della violenza, però è un dato di fatto. Nessuno vuole mettere in discussione il valore della famiglia, ma di fronte ad atteggiamenti violenti da parte del partner, come si fa a difenderla? La violenza domestica è un dramma vissuto spesso nella vergogna e nel silenzio. Le vittime tacciono per un malinteso senso della famiglia. Per paura del compagno, per la vergogna verso gli altri, per la speranza che non si ripeta, perché lui chiede perdono… Affetto e senso di vergogna si mescolano alla paura di ritorsioni».
C’è dunque una diversa soglia di tollerabilità verso la violenza domestica?
«C’è una cultura che respiriamo tutti, donne e uomini, giovani e meno giovani, di glorificazione della famiglia ed esiste una giustificazione obliqua, che in qualche modo gratifica la donna, perché spesso l’atteggiamento del maschio geloso oltremisura è considerato parte dell’amore. È molto più facile riconoscere come colpevole uno sconosciuto che aggredisce per strada, piuttosto che una persona che abbiamo scelto come compagno di vita. Rendersi conto che chi si ama è una persona violenta costringe la donna a porre in discussione la propria capacità di giudizio e a crearsi sensi di colpa, quando in realtà il colpevole è chi aggredisce e non la vittima, Ma denunciare è difficile. Spesso i maltrattamenti vanno avanti per anni, prima che le donne riescano a lasciarsi alle spalle queste situazioni angosciose. Spesso c’è la sensazione di una giustizia che non protegge abbastanza, c’è anche il timore di non essere credute. Le istituzioni (polizia, carabinieri, ospedali, parrocchie, vicinato) talvolta sono lente, disattente, passive. Ancora troppo spesso le Forze dell’Ordine tendono a trattare le violenze come un fatto privato, che i coniugi devono risolvere da soli. Alcuni assistenti sociali li chiamano “conflitti” invece che reati».
Quali sono le forme di violenza oggi più ricorrenti?
«Il picchiare è una sola delle tante epifanie della violenza. Esistono forme più subdole e non meno pericolose quali l’umiliazione, l’insulto verbale, la sopraffazione psicologica, la privazione della libertà di movimento. La donna viene fatta a pezzi, in maniera costante e ripetuta, attraverso gesti e parole di disprezzo, umiliazione e discredito, con quel lento e progressivo degenerare di un rapporto, quelle piccole umiliazioni quotidiane, prima verbali e poi fisiche, quella libertà che pian piano svanisce. che scava voragini nell’autostima. C’è la violenza economica che consiste nel privare la donna di ogni forma di sostentamento per far crescere nella partner la sensazione di dipendenza».
Come uscirne?
«Il primo passo verso la libertà è accettare anche la solitudine, ripetersi ogni giorno come un mantra: “mai più”. Nessun aiuto sociale, culturale o professionale può essere utile se la donna non ha la consapevolezza della propria dignità e di volerla riscattare. Le donne maltrattate, stuprate, violentate non devono soffrire da sole, devono rivolgersi alle Associazioni Antiviolenza, ai Centri d’ascolto preposti alla loro tutela, che possono aiutarle dando loro un sostegno psicologico, case protette, rifugi dove possono iniziare il percorso di recupero psicologico. Il mio sogno? Centri di aiuto in ogni quartiere, a cui la donna possa rivolgersi con discrezione per parlare di sé, ottenere ascolto e un primo orientamento su come comportarsi».
A cura di Cristina Tirinzoni
A CHI RIVOLGERSI:
Per chiedere aiuto basta telefonare al numero 1522 che collega tutti i centri anti violenza.
Casa di Accoglienza delle donne Maltrattate
Via Piacenza 14 – 20135 Milano
Tel. 02/55015519 ; e-mail: cadmmi@tin.it info@cadmi.org sito internet: www.cadmi.org.
IL LIBRO
Di recente è uscito Se questi sono gli uomini, (edito da Chiare lettere) scritto da Riccardo Iacona, noto giornalista televisivo. Racconta i femmicidi avvenuti in Italia nel 2012: ” tutti delitti annunciati”, dice Iacona, “storie conosciute dai familiari delle vittime, dai vicini di casa, spesso anche dalle forze dell’ordine quando le donne hanno avuto il coraggio di denunciare…”.