Il 27 gennaio si è celebrata la Giornata della Memoria in ricordo della Shoah, il peggiore abominio commesso dall’uomo: lo sterminio di circa sei milioni di ebrei nei 1634 Lager della Germania nazista. In questa data, nel 1945, le Forze Alleate liberarono il campo di concentramento di Auschwitz. Al di là di quel cancello, oltre la scritta Arbeit macht frei (Il lavoro rende liberi), apparve l’inferno. E il mondo vide l’orrore in tutta la sua realtà. Alimentando la memoria è come se anche noi, oggi, varcassimo i cancelli di Auschwitz: un modo per evitare che questa terribile notte della storia dell’uomo venga consumata nell’indifferenza del mondo. Ma sviluppare una riflessione sulla Giornata della Memoria non è mai facile, perché si corre sempre il rischio di dire cose banali. Anche i moniti profondi e solenni (“Mai più”) rischiano di scadere nella retorica. Tuttavia abbiamo voluto provarci, con l’aiuto di Laura Boella, docente di filosofia morale all’Università di Milano, autrice tra l’altro di un libro in uscita il 13 febbraio Le imperdonabili (Mimesis) dedicato al percorso di vita di alcune donne eccezionali, fra le quali Milena Jesenska ed Etty Hillesum che morirono nei campi di concentramento.
Professoressa Boella, perché è importante ricordare e commemorare la tragedia della Shoah?
«La Shoah è stato il Male assoluto, un evento giustamente definito imperdonabile e imprescrittibile. Quel limite dell’umano è stato oltrepassato. E allora dobbiamo far sì che si sappia che “questo è accaduto”. Dobbiamo raccontarlo ai nostri figli, e tramandarlo a ogni generazione futura. Conoscere è necessario, affinché non si ripetano mai più simili atrocità».
Eppure oggi c’è chi ritiene giunto il momento di archiviare il passato. La memoria dell’Olocausto rischia di smarrirsi?
«No, per nessuna ragione al mondo è possibile cancellare la Shoah. Ma sappiamo quanto la memoria sia intessuta di oblio, e dopo la scomparsa degli ultimi sopravvissuti-testimoni , il pericolo più grande è che quegli atroci avvenimenti si allontanino, e non solo per effetto del tempo che passa. La nostra società occidentale sta diventando largamente e sempre più una società astorica. Che il passato sia, rispetto al nostro presente, un “paese lontano”, è una sensazione abbastanza diffusa: c’è un atteggiamento di distacco, spesso anche di disattenzione, disinteresse per la Storia. Fatta questa doverosa precisazione, credo però che questo modo di affrontare la giornata della memoria sia fragile, e rischi di non essere più sufficiente, se non si presta attenzione anche a ciò che succede oggi. L’antisemitismo non è scomparso, ha solo cambiato nome. E si ripete, in altre forme, in altri luoghi, per altri motivi. Basta osservare come accadano ancora tante barbarie sotto i nostri occhi increduli o indifferenti. Dobbiamo sforzarci di andare oltre. Bisogna ricordare il male nelle sue estreme efferatezze e conoscerlo bene, ma abbiamo anche il dovere di infondere speranza: per rendere la memoria della Shoah un elemento vivo, soprattutto tra le nuove generazioni alla disperata ricerca di senso e di speranza per l’avvenire, personale e collettivo».
Cosa intende dire?
«I ragazzi di oggi sono cresciuti in una sorta di presente permanente. In fondo il passato per loro è un concetto inesistente. Sanno ben poco dei Lager, della Storia in generale. A volte sono distratti, refrattari, increduli. Il rischio della commemorazione, come di ogni commemorazione, è quello di trasmettere una memoria pietrificata. E questo dovere di memoria, del tutto astratto, rischia però di generare non solo indifferenza ma insofferenza, persino rifiuto: può essere un peso davvero troppo grande per i ragazzi affrontare l’orrore dei racconti e soprattutto delle immagini dei campi di sterminio, le camere a gas, i forni crematori. L’Olocausto può condurre a un atteggiamento di disperazione nei confronti dell’uomo. Com’è potuto accadere tutto ciò? Certo si possono dare risposte storico-politiche che aiutano a contestualizzare e tentano di “spiegare” l’Olocausto, ma la domanda in realtà non trova risposta. L’uomo è un grande insondabile mistero, e l’Olocausto ci ha svelato un nuovo abisso di male a cui l’uomo può giungere, ma anche la forza della sua resistenza che sovrasta l’orrore. La tragicità di quegli eventi non ha ucciso la possibilità di una umanità diversa, bisogna dirlo ai giovani! Noi vogliamo credere nell’uomo nonostante tutto, ponendo l’accento su come ognuno di noi abbia sempre la possibilità di scegliere il proprio comportamento, di opporsi alla scelta del male. Ciò che è importante è avere e conservare sempre la coscienza della responsabilità individuale, non essere indifferente, avere il coraggio di reagire, di pensare, di sapersi tirar fuori dal gregge e di ascoltare la propria coscienza».
Questa speranza può essere la nostra salvezza?
«La memoria deve nutrire le speranza, diceva Etty Hillesum, la ragazza ebrea morta ad Auschwitz a 27 anni, che ha lasciato le sue intense “Lettere” e il “Diario”, e che osò scrivere dal lager mentre attendeva la morte: “La miseria che c’è qui è veramente terribile, eppure alla sera tardi quando il giorno si è inabissato dentro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato e allora dal mio cuore s’innalza sempre una voce: non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo”. Non ci troviamo di fronte a una donna “mistica” ma a una giovane passionale, concreta, intellettualmente viva e curiosa… Ecco, ai giovani che non riescono a immaginare il proprio futuro e a progettarlo, e sono in preda a un senso di impotenza e di disillusione terribile – contro cui ogni giorno noi adulti, come educatori e genitori, lottiamo – voglio dedicare queste parole di Etty Hillesum: “Non credo che si possa migliorare qualcosa nel mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. E’ proprio l’unica possibilità che abbiamo, non vedo altre alternative, ognuno di noi deve raccogliersi e distruggere in se stesso ciò per cui ritiene di dover distruggere gli altri (…). E convinciamoci che ogni atomo di odio che aggiungiamo al mondo lo rende ancor più inospitale (…). Se non sapremo offrire al mondo impoverito del dopoguerra nient’altro che i nostri corpi salvati a ogni costo – e non un nuovo senso delle cose, attinto dai pozzi più profondi della nostra miseria e disperazione – allora non sarà servito a niente (…). Dai campi stessi dovranno irraggiarsi nuovi pensieri, nuove conoscenze”. Dobbiamo credere che le cose possono cambiare, altrimenti non cambieranno mai. Nessuno dovrebbe mai spegnere la speranza».
di Cristina Tirinzoni
Un libro per non dimenticare….
Gli occhi di mia madre, La Shoah raccontata ai miei figli di Anna Ornstein (Effatà editrice).
E’ una delle tante “voci della memoria” che ci aiutano a non dimenticare. L’autrice, ebrea ungherese deportata diciassettenne ad Auschwitz con la madre, ricostruisce in questo racconto autobiografico le vicende della persecuzione antisemita, dell’invasione nazista e del lager. Sopravvissuta e trasferitasi in America, è diventata psichiatra infantile, specializzata nel trattamento del disagio post-traumatico.