Sono differenti non solo sul piano fisico, sessuale, psicologico, affettivo. Donne e uomini hanno anche due diversi modi di reagire alle malattie e rispondere ai farmaci. Ne hanno parlato in questi giorni medici e specialisti intervenuti al Congresso “Gender & Science” che si è tenuto all’Università La Sapienza di Roma(14-16 febbraio), organizzato dallo stesso Dipartimento di Endocrinologia e da quello di Scienze Biomediche dell’Università di Sassari, con il contributo della Fondazione Internazionale Menarini. Da sfatare la convinzione che alcune patologie colpiscano un solo sesso: le malattie riguardano sia le donne che gli uomini, ma le conseguenze dipendono anche dal patrimonio genetico e dai differenti assetti ormonali nell’uno e nell’altro sesso. L’osteoporosi, ad esempio, pur interessando prevalentemente le donne, non risparmia gli uomini, soprattutto quella secondaria, conseguente a patologie gastrointestinali, endocrine, oncologiche e l’utilizzo di farmaci che rendono fragile la struttura ossea. Viceversa le malattie cardiovascolari, in particolare l’infarto, che sembrava essere una prerogativa maschile, colpisce sempre più le donne, rappresentando, dopo i 65-70 anni, la prima causa di mortalità. Eppure ancora poca “differenza di genere” esiste nel trattare queste malattie e nella sperimentazione di nuovi farmaci. «Le patologie cardiovascolari da trombosi sono la prima causa di morte e disabilità: in Italia ogni anno muoiono più di 120 mila donne», mette in guardia la professoressa Flavia Franconi, co-presidente del Congresso, docente di Farmacologia all’Università di Sassari e presidente del GISeG (Gruppo Italiano Salute di Genere, www.giseg.org). «Nonostante questi dati, permane la tendenza a considerare tale condizione una prerogativa maschile. Per questo la diagnosi viene spesso sottostimata o avviene a uno stadio più avanzato, quando è più difficile intervenire efficacemente e la prognosi diventa così più severa, con più alta mortalità. Nei due sessi, inoltre, sono presenti importanti differenze sia nell’età che nelle modalità di manifestazione di queste malattie e nelle reazioni dell’organismo ai farmaci. Le donne con più di 75 anni hanno un maggior rischio di fibrillazione atriale, sono più sintomatiche, soffrono maggiormente di ipertensione arteriosa, valvulopatia e scompenso cardiaco. Nell’evoluzione della fibrillazione atriale, il genere femminile rappresenta un ulteriore fattore di rischio. Le terapie anticoagulanti nelle donne non raggiungono, ad esempio, lo stesso controllo ottimale degli uomini. Per questo il trattamento deve essere differenziato e la sperimentazione di nuovi farmaci non può prescindere da queste “differenze di genere”». Proprio in questi giorni l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ha pubblicato un documento per sollecitare le aziende farmaceutiche a effettuare le sperimentazioni dei farmaci in modo differenziato, su donne e uomini, sottolineando l’importanza di testarne l’efficacia anche in riferimento all’età. Del resto sembra assurdo che in patologie ad alta prevalenza femminile, come l’osteoporosi che colpisce nell’80% dei casi le donne, le ricerche sui farmaci vengano condotte in maggioranza su soggetti maschili. A giugno saranno disponibili i risultati del primo studio pilota “di genere” che riguarda la valutazione degli effetti della ciclosporina nei malati di psoriasi (1000 donne e altrettanti uomini): per la prima volta è stato incluso, nel protocollo di sperimentazione, anche il dosaggio ormonale per valutare la differente reazione in riferimento alle fasi ormonali della donna. Uno studio pilota su una cinquantina di donne, diabetiche e con scompenso cardiaco, è appena partito presso la Scuola di Endocrinologia dell’Università La Sapienza di Roma. «Già abbiamo dati incoraggianti sull’uso del sildenafil (la famosa “pillola blu” contro l’impotenza) negli uomini: nei diabetici, anche scompensati, migliora la funzionalità del cuore già danneggiato dalla malattia e lo conserva in buono stato per tutto il tempo che viene assunta», conferma il professor Andrea Lenzi, co-presidente del Congresso, ordinario di Endocrinologia all’Università La Sapienza e coordinatore dello studio che è stato da poco pubblicato sulla rivista Circulation. «Se la “pillola blu” funziona così bene negli uomini, quali effetti avrà sulle donne? Per rispondere a questa domanda abbiamo allora deciso di testarla anche nelle donne. Lo studio, che dovrebbe durare 5/6 mesi e dare i risultati per la fine dell’anno, potrebbe confermare che la “pillola blu” fa bene anche al cuore delle donne».
di Paola Trombetta