E’ ingegnere, consigliere comunale a Torino, presidente dell’Associazione Levi Montalcini, emanazione dell’omonima Fondazione, che ha lo scopo di: “Assistere i giovani a scegliere con consapevolezza e basandosi sulla più ampia informazione possibile, il lavoro, sia esso manuale o intellettuale, per il quale si sentono maggiormente portati e aiutare con borse di studio, sovvenzioni per le rette scolastiche o l’acquisto di libri di testo quei ragazzi che per motivi economici non potrebbero proseguire gli studi”.
Piera porta con estrema disinvoltura un cognome importante, già da quando zia Rita lavorava in America, negli anni, ‘50 e non era conosciuta in Italia. Il nome Levi Montalcini è diventato famoso grazie al padre di Piera, Gino, architetto di grande successo. Da nipote di Rita Levi-Montalcini, Piera sente comunque la responsabilità , con la sua Associazione, di dover portare avanti il messaggio ereditato dalla zia “che si rivolge ai giovani, che hanno bisogno di serenità, di incoraggiamento, di un esempio da seguire: l’esempio di zia Rita è appunto l’emblema di quello che si può fare nella vita”.
E così inizia a raccontarmi, il suo impegno nel sociale…
«Operiamo come “centro di orientamento”, in collaborazione con enti e organizzazioni no-profit che costituiscono la base della nostra collaborazione: per ora sono diffusi quasi esclusivamente nell’area del centro-nord; purtroppo ci mancano riferimenti di Associazioni o enti no-profit nel centro- sud Italia, ma il nostro obbiettivo è anche quello di aumentarne il coinvolgimento. Privilegiamo in ogni caso i piccoli centri dove è più difficile reperire informazioni, e non le grandi città dove questo tipo di aiuto è più facile che sia già presente. Tengo a sottolineare – spiega – che il nostro impegno non si rivolge al “soggetto debole”, perché la società è fatta di persone: siamo tutti deboli e forti secondo come ci guardiamo; ci sono tuttavia persone più svantaggiate che vanno aiutate a non esserlo più. L’Associazione ha voluto quindi focalizzarsi sui “ragazzi normali”, i “nostri figli”, che non hanno problemi specifici, ma che molte volte hanno bisogno di piccolissimi aiuti per superare gradini che magari sembrano insormontabili. Incontriamo i ragazzi alla fine della scuola media per aiutarli a scegliere il loro percorso scolastico, soprattutto informandoli. Accanto a questa attività già avviata da tempo l’Associazione Levi-Montalcini, a partire dal 1998, istituisce borse di studio nei vari settori scientifici, da assegnare a giovani particolarmente dotati e impegnati che desiderino frequentare corsi di specializzazione in Italia o all’estero, nell’intento di stimolare i nostri ragazzi a entrare con maggiore consapevolezza nel mondo del lavoro in una società che farà sempre più leva sulla scienza e sulla tecnica».
Ma ora parliamo però di donne, data l’attualità di questa ricorrenza…
«Una premessa è d’obbligo: non amo che si divida la Società in gruppi: il gruppo dei bambini, il gruppo degli anziani, il gruppo degli ultra-anziani, il gruppo delle donne… E’ tutto questo insieme che costituisce la società: i gruppi sono tra loro interconnessi e interagiscono, quindi lavorare su uno di questi, significa lavorare anche sull’altro. Occuparsi dei bambini dell’asilo nido significa mettere le donne in condizione di poter lavorare, così come l’assistente domiciliare agli anziani può sgravare sempre la donna dall’assistenza e cura, un’incombenza che spesso le tocca. Andrebbero inoltre rivisti i tempi del lavoro, ad esempio nelle istituzioni: gli italiani fanno politica dopo cena, escludendo di fatto le donne. E i nonni sono coloro che dedicano il loro tempo a crescere i nipotini per permettere alla coppia di andare a lavorare. Mi sembra sia proprio il caso di rivedere il nostro welfare in chiave più europea, con standard in aiuto al progresso».
Come vede la “declinazione” donna-lavoratrice e mamma?
«Questa è l’occasione per dire una cosa che in Italia sembrerebbe non potersi dire: cioè che le mamme, proteggono troppo e in maniera sbagliata, i propri figli e non li aiutano a crescere! Vorrei citare l’esperienza personale di mia figlia che abita in un paese del Nord Europa, dove i bambini in prima elementare vanno a scuola da soli. In questo tipo di società la vita è pensata e progettata in modo sostanzialmente diverso, quindi anche in funzione propria dei bambini».
Cosa pensa delle pari opportunità?
«Se siamo discriminate, penso sia, in parte, anche un po’ colpa nostra. Siamo timide, non osiamo chiedere, farci valere e non osiamo considerarci al pari dei maschi, abbiamo sempre l’idea che “non ci vogliamo esporre”. Penso che dovremmo essere noi stesse a promuoverci. Conosco donne, anche più anziane di me, che hanno avuto incarichi “maschili”, in ambiti dove siamo abituati a vedere gli uomini al comando. Dipende, a mio avviso, dall’educazione ricevuta per abituarsi a essere considerate al pari dell’uomo. Anche per quanto riguarda il tema della violenza, non siamo abituate a reagire: si passa dalla battuta “di poco spirito” ad altro tipo di violenza in un battibaleno e dovremmo ribellarci, già dalla prima battuta. Dovremmo imparare già da piccole, e la scuola dovrebbe insegnarci a sviluppare gli anticorpi già al primo accenno di bullismo o piccola aggressione. Ci serviranno poi nella vita, nella scuola, nel lavoro: una vera e propria “formazione alla vita”».
di Silvia Pogliaghi