Madri cattivissime.jpeg”>(Mondadori), un testo in cui analizzano sogni e speranze, ma soprattutto le ambivamenze, di una generazione di trentenni che ancora non hanno deciso se essere mamme oppure no. Un saggio denso, che nasce da un’esperienza ventennale di pratica clinica, con tante testimonianze di donne che, con sincerità e partecipazione, raccontano la loro storia.
Pare sia in corso una sorta di silenziosa mutazione. Nei paesi ricchi, sempre più donne scelgono di non fare figli, senza per questo sentirsi donne a metà o prive di qualcosa…
«Per secoli i bambini sono “arrivati” quando volevano. La maternità coincideva con il destino biologico di ogni donna. Questo oggi non è più vero. In modo sempre più evidente le donne pensano alla maternità come a una scelta responsabile, a una delle tante possibilità che hanno di realizzare se stesse. Perché si può essere donna senza essere madre. Alla domanda “vuoi un figlio?”, ogni donna oggi può rispondere con un sì, con un no, con un forse o con un dopo, senza che ciò alteri il valore della persona».
Mamma, non mamma: rischiano di diventare due schieramenti contrapposti?
«C’è una sfida nell’aria, la si avverte e non si può fare a meno di accettarla: riconoscere che esistono modi diversi di essere donna, tutti rispettabili, tutti altrettanto validi. Fare figli è un’esperienza appagante, ma non è obbligatorio averli, né la felicità passa necessariamente per la procreazione».
Nella nostra cultura, la mamma è una figura mitica, idealizzata.
«C’è ancora una falsa retorica molto forte sull’amore materno e, tragicamente, inservibile che ha però ancora una grande presa sulle donne. Quando si diventa madri ci si rende conto quanto si abbia interiorizzato questo immaginario della maternità un po’ favolistico, assoluto e quanto invece magari la nostra esperienza ne sia lontano. Il rapporto madre-figlio non è costellato, come nella convinzione romantica che ci hanno sempre insegnato, da amore spassionato e dedizione affettuosa. Avere un figlio significa anche talvolta essere infastidite da quel fagotto che ti ruba la tua autonomia, sentirsi a volte arrabbiate con lui o non sopportare più un figlio adolescente. Non sempre o quasi mai i bambini sono cosi come ce li siamo immaginati. Non tutte le madri provano da subito un amore totale e immediato per il proprio figlio. Queste sensazioni più o meno consapevoli fanno sentire in colpa, portano a pensare di essere una cattiva madre. Cattive mamme? Assolutamente no. Ogni legame d’amore è segnato da ambivalenza. E nei tempi attuali esce allo scoperto con grande prepotenza. Perché diventare mamme comporta un tale stravolgimento della propria vita, della propria personalità e del proprio fisico. Ciò che non va, invece, è negare e cercare di nascondere anche a se stesse i momenti di smarrimento e di intolleranza, o sentirsi in colpa di averli provati».
Guardiamo i numeri. Quanto a natalità l’Italia è messa male, con 1,4 figli per donna è il paese europeo dove nascono meno bambini. Una donna su 5 non lo fa o lo fa sempre più tardi. Nel 2004 l’età media della prima maternità era 29 anni; oggi è 33 anni, un’età che tende a crescere. La mamma è una specie in via di estinzione?
«Le donne che rifiutano la maternità sono una minoranza e ci sono sempre state. Ed è raro che le ventenni pensino alla maternità con urgenza decisionale. Anche se la maggior parte delle donne a quella età dichiara di volere una famiglia numerosa. Fra i 20 e i trent’anni sembra che tutte si concentrino sullo studio, all’avvio delle prime esperienze di lavoro, allo sviluppo delle proprie attitudini, alla propria autonomia personale e alla relazione col partner. Soltanto dopo i 30 si comincia a pensare se avere bambini oppure no, quando anche l’orologio biologico comincia a ticchettare con sempre più insistenza. E la vera novità che si osserva da qualche anno è proprio quella di una nuova e più numerosa categoria di donne, nella generazione tra i 30 e i quarant’anni, che pensa e ci ripensa senza riuscire a individuare l’argomento decisivo che faccia propendere per il sì o per il no. La maternità non è “esclusa”, ma solo “rimandata”. Accendono la lampadina, poi la spengono, sognano di diventare madri poi rimandano a un tempo che rischia di non giungere mai, o ai limiti dell’età fertile. Se le donne convinte dicono sì, le sterili “non posso”, le disinteressate “no grazie”, le donne che nel mio libro ho chiamato “le ondivaghe” esprimono la loro attitudine verso la maternità con la parola “Dopo”. Continuano a ripetere quel “non mi sembra il momento” anche quando i prerequisiti sono a posto: denaro, lavoro casa, partner».
Da dove nasce l’ambivalenza delle trentenni di fronte al desiderio di maternità?
«Le trentenni si sentono donne adulte ma ancora in evoluzione in crescita, in tal senso l’arrivo di un bambino può costituire non l’inizio ma un blocco del processo evolutivo dell’identità. Siamo di fronte a una generazione di giovani donne che sono state educate all’insegna della realizzazione di sé, con l’idea di viaggiare, lavorare, migliorarsi e poi tutto a un tratto si chiede loro di diventare “tradizionali” e dedicarsi alla cura del bambino. Spesso, il freno è proprio costituito dalla paura di non essere all’altezza di quel modello di mamma di stampo ottocentesco che ancora persiste nell’immaginario collettivo, una madre a tutto tondo, generosa e dimentica di se stessa. Un modello per molte non più compatibile con l’educazione e le aspettative delle “ragazze” di oggi. O poco attraente. Non a caso oggi molte giovani donne, vedendo le amiche trasformarsi in mamme al cento per cento, schiave del bebè, cambiano idea e decidono di aspettare. Ecco la contraddizione: tutto le spinge a desiderare un figlio, ma razionalmente sanno che è una trappola. Allo stesso tempo avvertono la pressione di un contesto sociale che non risparmia appelli quotidiani a fare figli. Certo, riescono a sorridere al tagliente commento di chi immancabilmente comincia con un: “Alla tua età io avevo già due figli, un lavoro, un marito”, e a parenti che attaccano con la tiritera: “Quando fai un figlio?” ».
Si è persa, per molti versi, la naturalezza di una decisione che viene eccessivamente ponderata?
«Sarò una brava mamma? Di quanto dovrò ridurre la mia vita e le mie aspirazioni extra bambino? Come cambierà il rapporto col partner? Lui sarà un buon padre?… Sono queste le domande che si rivolgono le trentenni di oggi. Molti, forse troppi, sono i prerequisiti per poter pensare a un figlio e troppe le aspettative da soddisfare. Decidere ciò che una volta poteva essere disposto “a cuor leggero” oggi pone una serie infinita di riflessioni. Gli stereotipi che continuano a esserci potenziano l’idea che la maternità sia più un pericolo che un appagamento. E questa paura fa sì che le giovani donne smarriscano il linguaggio del desiderio, di quel desiderio di maternità. E dunque, paradossalmente, dopo aver rivendicato il diritto di decidere, le stesse donne affermano che in realtà ci vorrebbe un momento di incoscienza o di lucida follia, di istinto che superi la ragione, per avere il “coraggio” di mettere al mondo un bambino».
Essere madri oggi, è forse più complesso di ieri? Se allatti sei una sottomessa che non si fa valere, se non allatti sei un’egoista che pensa solo a se stessa. Se non rientri subito al lavoro sei una senza aspirazioni, se rientri sei una cattiva madre. Anche la psicologia ci ha messo del suo…
«Il compito materno non si è affatto ridimensionato, ma anzi ampliato di nuovi, faticosi ruoli e funzioni. E così è spesso accompagnato da feroci sensi di colpa. La psicologia ha enfatizzato giustamente il rapporto madre bambino ma proponendo un ritratto della buona madre che deve essere dotata di moltissime qualità (disponibile ma non invadente, sempre altruista, oblativa, duttile ed elastica, paziente), ha purtroppo riversato sulla madre responsabilità eccessive, come se tutto, soprattutto il futuro equilibrio psichico del figlio, fosse deputato alle capacità materne. Ce n’è a sufficienza per mettere ansia. Questo orientamento induce le madri a destinare notevoli energie per sviluppare quello che chiamo “il falso sé materno”, un’attitudine che spinge a osservarsi e valutarsi di continuo fino a smarrire molta della spontaneità nella relazione col figlio. A fronte di questa situazione mi viene voglia di dire alla mamme: non datevi troppa importanza, non cadete nell’illusione che tutto dipenda da voi. Non isolatevi, ricordatevi che serve un’intera comunità (a partire dal padre) per allevare un bambino. Non esiste un modello di buona madre unico o giusto. Ne esistono migliaia, perché il modo in cui ogni madre lo affronta dipende da una complessità di fattori tra cui le caratteristiche della propria personalità, le risorse dell’ambiente che la circonda, la storia affettiva, il rapporto di coppia. Le brave madri, quelle in carne e ossa, sono quelle che a volte sbagliano. Sbagliano e poi rimediano. Sbagliano e così imparano qualcosa di nuovo di se stesse e del proprio figlio».
di Cristina Tirinzoni