TIROIDE: PREVENIRE E’ MEGLIO CHE CURARE (SOPRATTUTTO SE C’E’ UN NODULO…)

 

«Sembrava un nodulo inoffensivo e me ne sono accorta quando avevo 24 anni perché alcuni amici medici lo avevano notato alla base del collo: in realtà, nonostante l’annuale ecografia di controllo, dopo 20 anni è diventato un tumore con metastasi», ricorda Anna Maria Biancifiori, oggi presidente del Comitato Associazioni Pazienti Endocrini (CAPE), che ha contribuito a promuovere la Settimana della prevenzione delle malattie alla tiroide (18-25 maggio) www.tiroide.com, in collaborazione con le Società scientifiche AIT (Associazione Italiana della Tiroide), AME (Associazione Medici Endocrinologi) e SIE (Società Italiana di Endocrinologia). «Se a quei tempi si fosse praticato l’ago aspirato – aggiunge Anna Maria – il tumore si sarebbe diagnosticato e asportato subito e non avrebbe comportato le pesanti conseguenze che ho dovuto affrontare a causa delle metastasi ai polmoni». Oggi, nella pratica clinica, per noduli superiori a 6 mm si fa l’ago aspirato, come indicato dalle linee guida internazionali: se positivo, si asporta subito il tumore, il più frequente tra quelli endocrini (1-2% di tutti i tumori). Anche per le altre malattie (ipotiroidismo, tiroidite autoimmune), che colpiscono la tiroide e hanno una frequenza 5-8 volte superiore nelle donne rispetto agli uomini (per un totale di sei milioni di persone coinvolte), esistono oggi farmaci mirati. Tra questi la levotiroxina (T4) da assumere per compensare la mancanza di ormoni prodotti dalla tiroide (come nel caso della signora Biancifiori). «E’ un farmaco che deve essere somministrato per uso cronico, anche per tutta la vita», conferma il dottor Gianfranco Fenzi, presidente dell’Associazione Italiana Tiroide (AIT). «Si deve prendere a digiuno, un’ora prima della colazione, per consentirne l’assorbimento. Nelle persone con problemi gastrici si consigliano farmaci gastroprotettori, da prendere un’altra ora prima, con lunghi tempi d’attesa e disagi per i pazienti. E’ da poco in commercio una nuova formulazione in fiale monodose che hanno un più rapido assorbimento e non implicano tempi di assunzione così lunghi».

Una seconda classe di malattie tiroidee, molto diffusa nella popolazione, è legata al deficit nutrizionale di iodio che potrebbe essere corretto facendo uso nell’alimentazione di sale iodato, reperibile in tutti i supermercati, che garantisce l’apporto di iodio indispensabile al corretto funzionamento della tiroide. «Il consumo di sale iodato in Italia, dopo il decreto legge del 2005, ha superato il 50% ma è ben lontano dal 90% raccomandato dall’OMS», fa notare il dottor Francesco Trimarchi, presidente della Società Italiana di Endocrinologia (SIE). «Gli effetti negativi della carenza di iodio possono determinare uno stato di ipotiroidismo lieve o sub-clinico, particolarmente frequente nelle donne, che potrebbe anche causare una condizione di ipo-fertilità e rischio di aborto spontaneo. Durante la gravidanza poi, lo scarso apporto di iodio potrebbe avere conseguenze negative sullo sviluppo psico-neurologico del nascituro. Ecco perché è indispensabile, soprattutto nelle donne che stanno programmando una gravidanza, la profilassi con sale iodato che dovrebbe avvenire con anticipo rispetto al concepimento».

Ipotiroidismo e infertilità

E’ una correlazione particolarmente frequente, che è stata riportata da diversi studi scientifici internazionali, ma viene spesso trascurata dai ginecologi. Ne hanno parlato specialisti endocrinologi intervenuti al recente Convegno di Stresa (11-12 maggio), promosso dalla Fondazione IBSA per la ricerca scientifica, istituita da pochi mesi per promuovere e divulgare la ricerca scientifica, in ambiti di endocrinologia, reumatologia, dermatologia e che interessano soprattutto le donne. E donna è anche la direttrice della Fondazione, Silvia Misiti, che ha lasciato il suo incarico di endocrinologa alla “Sapienza” di Roma per dedicarsi a tempo pieno a questo nuovo progetto che si propone di “divulgare”, ma anche di supportare la ricerca scientifica, colmando quelle lacune che, spesso, le istituzioni non sono in grado di gestire. Il primo di questi progetti riguarda proprio la divulgazione e la ricerca sull’Ipotiroidismo sub-clinico (Iposub), una patologia spesso misconosciuta, ma che può comportare gravi conseguenze per le donne, tra cui infertilità e rischio di aborti spontanei. «Raramente il medico di famiglia o il ginecologo consigliano di verificare il profilo ormonale alle pazienti che si presentano magari accusando un po’ di malessere generalizzato, di stanchezza, depressione e difficoltà a dimagrire», fa notare la dottoressa Misiti. «Da un semplice esame del sangue si potrebbero invece valutare i livelli di ormoni tiroidei (T3 e T4) che in alcuni casi potrebbero essere carenti e andrebbero integrati. E soprattutto l’ormone TSH, prodotto dall’ipofisi, il cui innalzamento è indice di irregolare produzione degli ormoni tiroidei. Il valore ottimale di TSH dovrebbe essere compreso tra 0 e 5 mUI/ml». Da uno studio recente, pubblicato sull’American Journal of Reproductive Immunology condotto su 164 donne, si è visto che quando il TSH è superiore a 3,5 mUI/ml si riscontrava difficoltà a rimanere incinte e chi riusciva a concepire aveva spesso aborti ricorrenti. Trattando queste donne con levotiroxina (ormone tiroideo T4) era nettamente aumentato il tasso di fertilità e si erano ridotti gli aborti spontanei. «Non solo prima, ma anche durante la gravidanza è fondamentale il monitoraggio degli ormoni tiroidei: una carenza potrebbe causare danni neurologici al feto», mette in guardia la dottoressa Misiti. «Per questo le linee-guida consigliano di arrivare alla gravidanza con valori di TSH non superiori a 3 mUI/ml: in questo periodo delicato della donna occorre infatti mantenere un giusto livello di ormoni tiroidei per consentire una gravidanza senza rischi di aborto o di eventuali problemi neurologici al feto».

di Paola Trombetta

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