Sono oltre un milione gli italiani, di cui il 55% donne, che non hanno più un passato, cancellato dalla loro memoria dall’ombra dell’Alzheimer, e un futuro senza tracce definite, imprevedibile, aggressivo, lungo da pochi a una decina di anni, disegnato dall’evoluzione della malattia. Lenta, progressiva, ma devastante, distrugge le cellule nervose del cervello, intaccando irreversibilmente le funzioni cognitive, il linguaggio, il ragionamento. Ammalati che entro il 2050 saranno una falange enorme: oltre 115 milioni. Ma la causa non è solo l’allungamento della vita media e l’invecchiamento, a cui la malattia è direttamente correlata: la ragione va ricercata piuttosto nella sottostima dell’Alzheimer, misconosciuto o trascurato fin dai suoi esordi (solo in Italia circa 400 mila casi non sono accertati), nell’attuale mancanza di terapie specifiche e negli insufficienti mezzi diagnostici, sebbene in questa direzione qualche passo avanti sia stato fatto. Poche o assenti, dunque, sono a tutt’oggi le possibilità di guarigione. Mentre cresce con la progressione delle manifestazioni della malattia, l’esigenza di assistenza continua alla persona colpita, incapace di autonomia o di compiere le normali attività quotidiane. Le ripercussioni cadono così, non solo su chi ne è affetto, ma anche sulla rete familiare e sugli oltre 2 milioni di caregiver. Questi, in Italia, otto volte su 10 sono donne (mogli, figlie, nuore) e fra loro uno su 4 già over 65, che dedicano all’ammalato più di 15 ore al giorno, ricavando a malapena 4 ore la settimana di tempo libero per se stessi.
«Lo scenario in Italia è preoccupante, ma non esiste un piano nazionale contro le demenze – commenta Marc Wortmann, direttore di Alzheimer Disease International (Adi)», intervenuto a Palazzo Marino a Milano in occasione di una delle tante manifestazioni sul territorio per la XX Giornata Mondiale sull’Alzheimer, celebrata il 21 Settembre. Un piano sulla carta in Italia c’è, ma si è arenato su uno dei tavoli della Conferenza Stato-Regioni. E sarebbe necessario visto che il rapporto dell’ADI sulla malattia, redatto in collaborazione con il professor Martin Prince del King’s College di Londra e la compagnia di assicurazioni Bupa, ha anche evidenziato che sono necessari finanziamenti dieci volte superiori a quelli disponibili per dare nuova linfa al lavoro di ricerca, prevenzione, trattamento e assistenza della demenza, mitigare l’impatto dell’epidemia mondiale, migliorare la qualità dell’assistenza e la vita dei malati. Lo conferma anche la dottoressa Patrizia Spadin, Presidente dell’Associazione Italiana Malattia di Alzheimer (AIMA) in occasione del Talk-show romano “Ti ricordi? Ogni dieci minuti nel nostro Paese qualcuno perde la memoria”: «L’Alzheimer è una malattia che non ha bisogno solo di attenzione, ma di un impegno legislativo vero, attento e continuativo». Perché il suo approccio è difficile e complesso, anche in campo medico: infatti il prevalente disturbo della memoria, che rappresenta oggi soltanto il 35-40% dei casi, non è più un sufficiente criterio diagnostico. «Le Linee Guida promulgate dalla NIA (National Institute of Aging NIH) alla fine del 2012 – commenta Carlo Caltagirone, professore di Neurologia all’Università di Roma Tor Vergata e direttore scientifico della Fondazione Santa Lucia – insegnano a guardare anche ai disturbi delle funzioni esecutive (attenzione, concentrazione, duttilità cognitiva); del linguaggio (difficoltà evidenti nel rinvenimento dei nomi, confusione tra il nome di un oggetto e l’altro, difficoltà nell’articolare il linguaggio) e ai disturbi viso-spaziali (difficoltà di orientarsi negli ambienti aperti, di memorizzare i percorsi, di distinguere correttamente oggetti rappresentati visivamente rispetto ad altri)». Il riconoscimento tempestivo di uno di questi segnali è l’unico modo, al momento, per arrestare il decorso della malattia. «Una diagnosi (e quindi una terapia) precoce – aggiunge la professoressa Monica De Luca, presidente dell’ European Brain Council – può ritardare l’inizio della malattia fino a 3-4 anni, quindi la sua progressione e ridurre la prevalenza dell’Alzheimer nella popolazione del 30%. Questo significa per i pazienti sei anni in più di vita serena, senza aumentarne l’aspettativa».
Un’eco sulla malattia arriva anche da Venezia dalla Conferenza “The Future of Science” dove si sono delineati, oltre ai temi correlati alla longevità, anche lo stato dell’arte e le prospettive future della ricerca sull’Alzheimer. L’attenzione oggi si è spostata dagli ammassi di placca amiloide, che si ritenevano i responsabili dello sviluppo della malattia, verso i microglia, ossia le cellule che fungono da “sistema immunitario” del cervello e che hanno un ruolo nella formazione della stessa placca amiloide. «I microglia – precisa la professoressa Michela Matteoli dell’Università degli Studi di Milano e direttrice del “Neuroscience Program” all’Istituto Clinico Humanitas – sono in grado, in caso di allerta, di eliminare potenziali pericoli, ma se rimangono attivati per troppo tempo nel tessuto cerebrale si genera un’infiammazione causata dagli stessi microglia». In attesa che la ricerca studi le strategie per ridurre in maniera specifica questa infiammazione e ideare terapie innovative che perseguano l’obiettivo, occorre affidarsi alla prevenzione praticando soprattutto adeguata attività fisica. «Oggi abbiamo la dimostrazione scientifica da studi su animali da laboratorio – conclude la professoressa Matteoli – che i neuroni, in assenza di malattie, non solo non invecchiano, ma possono addirittura rigenerarsi, se associati a uno stile di vita sano». Un’indicazione da non sottovalutare e non soltanto dal punto di vista della salute, se si pensa che secondo recenti studi (2011-2012) pubblicati da European Brain Council, l’Alzheimer è tra le dodici patologie cerebrali a più alto impatto socio-economico, con costi diretti e indiretti per l’Europa che ammontano a 798 miliardi di euro all’anno.
di Francesca Morelli