«Sono stata operata un anno fa di tumore all’utero e durante l’intervento mia sorella Eugenia, gemella omozigote, ha provato la stessa sofferenza fisica che ho avvertito io. Così pure quando facevo la chemioterapia: un giorno ha addirittura avuto lo stesso eritema cutaneo che era comparso a me. E quando ho perso i capelli, anche Eugenia ha voluto indossare una parrucca come la mia». Giovanna, insegnante elementare di Firenze, racconta così la storia della sua malattia, che ha ispirato il cortometraggio “Insieme”, presentato in anteprima al Festival del Cinema di Venezia, per la regia di Annamaria Liguori. Il racconto di Giovanna, “Parrucche gemelle”, aveva vinto qualche mese fa il concorso, promosso da SaluteDonna e dalla Società Italiana di Psico-Oncologia (www.nonausea.it), con il contributo di MSD. E’ stato poi bandito un successivo concorso, vinto dalla Meltin Pot, casa produttrice del cortometraggio, che sarà in gara al prossimo Festival Internazionale di Roma del 6 ottobre.
“Insieme per vincere il tumore“: è lo slogan di questa iniziativa che vuole dimostrare come la condivisione, l’affetto delle persone care, il dialogo costante con il medico-oncologo, possono migliorare la qualità di vita della persona con tumore e rafforzare la guarigione. «La chirurgia e le terapie innovative hanno aumentato la sopravvivenza e la speranza di guarigione», conferma Annamaria Mancuso, presidente dell’Associazione Salute Donna onlus (www.salutedonna.it) e lei stessa operata più volte di tumore. «Ma rimane il problema della scarsa comunicazione tra medico-specialista e paziente. Spesso il malato non riferisce al medico quei disturbi, a volte anche gravi come la nausea, che rovinano la qualità di vita e rendono insopportabile il vissuto della malattia. D’altro canto poche volte il medico si preoccupa di attenuare gli effetti collaterali, spesso devastanti, della chemioterapia. L’importante per l’oncologo è prescrivere i farmaci per debellare il tumore. E la qualità di vita del malato, troppo spesso, passa in secondo piano! Per questo è fondamentale che l’oncologo abbia un dialogo continuo con il paziente, informandosi ad esempio se le terapie che sta seguendo per il tumore provocano effetti collaterali».
Una recente indagine condotta dalla Società Italiana di Psico-Oncologia ha evidenziato come la nausea e il vomito, con la caduta dei capelli (alopecia), siano i sintomi più temuti dai pazienti e i più devastanti. «Il vomito da chemioterapia ha l’impatto negativo peggiore sulla qualità di vita dei pazienti e sulle attività quotidiane, con ripercussioni sulle condizioni di salute generali e sulla stessa efficacia della terapie», fa notare la dottoressa Domenica Lorusso, ginecologa-oncologa all’Istituto dei Tumori di Milano. «La frequenza con cui il vomito si manifesta varia a seconda del tipo di farmaco chemioterapico: per alcuni il rischio può essere molto elevato (80-100%). Oggi esistono terapie che riducono questi effetti, raccomandate dalle Linee guida internazionali. Purtroppo però solo un paziente su tre ottiene un’adeguata prescrizione».
Lo studio PEER (Pan European Emesis Registry), condotto in 52 Centri di 8 paesi europei, inclusa l’Italia, segnala però un problema: l’oncologo non applica correttamente le Linee guida per la profilassi contro nausea e vomito nel paziente sottoposto a terapie oncologiche. Stando ai risultati dell’indagine, gli oncologi prescrivono una terapia di supporto farmacologico quasi nel 92% dei casi: eppure il 65,4% dei pazienti continua a soffrire di pesanti effetti collaterali. Questo perché la prescrizione della terapia antinausea solo in un caso su tre è conforme a quanto raccomandato nelle Linee guida internazionali. «Quando la somministrazione rispetta le Linee guida, si riscontra una riduzione di almeno il 10% degli effetti collaterali», conferma la dottoressa Lorusso: «non si tratta di un risultato da poco, perché viene ottenuto senza interrompere o sospendere la chemioterapia o ridurre il dosaggio. Il buon controllo degli effetti collaterali ha ripercussioni importanti anche sulla quotidianità del paziente e sul contesto familiare, permettendo al paziente o al suo care-giver la ripresa dell’attività lavorativa».
di Paola Trombetta
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