Non più di tre cicli di fecondazione assistita rimborsabili e nessun trattamento dopo i 42 anni: sono i contenuti della delibera approvata di recente dalla Regione Friuli Venezia Giulia e in discussione per essere estesa a tutt’Italia. A fronte di una crisi generalizzata, la restrizione coinvolge anche le spese mediche, in particolare quelle per il ricorso alla procreazione medicalmente assistita (PMA) che rappresentano oggi lo 0,1% del totale.
«La domanda che si pongono le Regioni , in questa logica di tagli economici alla sanità, è fino a quanti trattamenti si possono ottenere risultati accettabili», commenta il dottor Andrea Borini, presidente uscente della Società Italiana di Fertilità e Sterilità (www.sifes.it) e presidente del Congresso organizzato da Tecnobios Procreazione (www.tecnobiosprocreazione.it) che si è da poco concluso a Milano Marittima (Ravenna). «Lo Stato non vuole sottrarsi a riconoscere le cure alle coppie con problemi di fertilità, ma vuole limitare gli sprechi, cercando di stabilire un criterio per definire quanti cicli e a chi rimborsarli. Come “scusante” adduce la presunta riduzione delle probabilità di successo di una maternità dopo il terzo tentativo di PMA. Ma non è così. I dati raccolti da uno studio condotto dal nostro Centro Tecnobios di Bologna su quasi 2 mila donne, dai 25 ai 45 anni (per un totale di 2500 cicli), non rilevano un calo così evidente. Anzi, in alcune fasce d’età, come prima dei 30 anni e dai 35 ai 40, si è addirittura evidenziato un lieve aumento (dal 32% al 36%), mentre dopo i 42 anni, la riduzione è più evidente (dal 14,5% al 4,3%). In realtà sarebbe necessario valutare meglio la situazione clinica di ciascuna donna ed evitare spese eccessive per esami invasivi, spesso inutili».
In Italia la legge 40 limita la rimborsabilità per i cicli di fecondazione assistita nel pubblico e nei centri convenzionati, e spesso ci si ritrova in situazioni paradossali di donne con più di 45 anni che iniziano il 4°-5° ciclo, con esubero di spese per esami clinici inutili e lunghi tempi di attesa per le pazienti, senza garanzie di esiti favorevoli. In Europa la situazione dei rimborsi e del ricorso alla PMA è molto variegata: fiore all’occhiello è la Svezia, dove si effettuano quasi 3mila cicli di PMA su un milione di abitanti (in Italia se ne effettuano solo 798), tutti rimborsati fino alla nascita del primo figlio, mentre per il secondo figlio vengono rimborsati solo tre cicli. «Pur riconoscendo l’eccellenza di questa nazione, da noi una situazione del genere sarebbe impraticabile, a causa degli esigui finanziamenti erogati per questo genere di interventi – solo lo 0,1% della spesa sanitaria totale», fa notare il dottor Antonino Guglielmino del Centro Hera di Catania. «Una necessità urgente sarebbe invece quella di rendere più qualificati i centri che praticano la PMA: a livello ospedaliero come nel privato, esistono ancora oggi centri (25%) che non congelano embrioni e questa è una realtà inaccettabile!».
L’infertilità è una malattia?
«Partendo dal riconoscimento della sterilità come uno stato patologico, che può e deve essere curato, tutti gli interventi medici a riguardo dovrebbero essere riconosciuti in ogni Regione e le scelte dei politici non possono penalizzare la salute della donna», ribadisce il professor Carlo Flamigni, autorevole voce nel campo della fecondazione assistita e autore di numerosi libri sull’argomento. «Da non trascurare poi le problematiche legate all’ipofertilità o sterilità idiopatica, ovvero a quella condizione per cui una donna, pur non avendo patologie vere e proprie, non riesce ad avere figli. Anche in questi casi occorre garantire un approccio clinico che permetta di trovare una soluzione adatta a ciascuna coppia, evitando le soluzioni estreme dei viaggi della speranza nei centri stranieri per la donazione dei gameti. Del resto è sconvolgente pensare che, nel nostro Paese, abbiamo dovuto ricorrere ai Tribunali per modificare una legge inadeguata e restrittiva». Un esempio eclatante è la recente sentenza del Tribunale di Roma che ha autorizzato la diagnosi pre-impianto dell’embrione a una coppia “fertile” portatrice di fibrosi cistica. Finora una precedente sentenza aveva autorizzato la diagnosi pre-impianto alle coppie infertili, portatrici di malattie genetiche, e costrette a ricorrere alla PMA. Come pure si dovranno affrontare al più presto tutte le problematiche delle donne che, a causa di malattie oncologiche, vorrebbero congelare i propri ovociti, per preservare la fertilità futura, compromessa dalla chemioterapia. Attualmente per queste procedure non è riconosciuto alcun rimborso. E si dovranno anche regolamentare gli interventi di PMA nelle coppie portatrici di malattie infettive, che devono avere rapporti sessuali protetti. «Le malattie infettive più diffuse sono l’HIV e l’HCV», puntualizza la dottoressa Valeria Savasi, ginecologa, specializzata in malattie infettive all’Ospedale Luigi Sacco di Milano. «Quando uno dei due coniugi è portatore di queste infezioni, la coppia, non potendo avere rapporti sessuali per il rischio di trasmissione, deve ricorrere alla PMA, che viene interamente rimborsata dal Sistema Sanitario. Non abbiamo dati sufficienti per valutare il possibile rischio di trasmettere l’infezione ai gameti, che sembrano essere preservati. L’embrione impiantato in utero non è dunque infetto: il rischio di trasmissione dalla madre al feto avviene solo durante il parto vaginale, motivo per cui si tende a praticare il cesareo. Con l’utilizzo delle nuove terapie antiretrovirali, stiamo valutando se effettivamente esiste ancora il rischio di trasmissione nei parti vaginali. E’ stato avviato uno studio con altri centri italiani (Sant’Anna di Torino, Ospedale Sacco e San Paolo di Milano, Cardarelli di Napoli) per valutare i rischi del parto vaginale nelle donne con infezione da HIV».
di Paola Trombetta