www.simg.it) i giorni scorsi a Firenze, è stato presentato il Progetto “Vìola”, la prima campagna nazionale di sensibilizzazione sulla violenza domestica rivolta ai medici di famiglia. Cosa prevede questa campagna e come dovrebbero comportarsi i medici? Ne abbiamo parlato con la dottoressa Raffaella Michieli, segretario nazionale SIMG, promotrice di un progetto pilota che ha coinvolto alcuni ambulatori medici della provincia di Venezia.
«Il Progetto “Vìola” si propone di abbattere quel “muro di silenzio” che circonda la problematica della violenza contro le donne. Attraverso manifesti e opuscoli informativi, distribuiti nei 30 mila ambulatori di medicina generale sul territorio nazionale, ci proponiamo di sensibilizzare sia le pazienti che i medici. Le donne, infatti, devono sapere che si possono “confidare” col proprio medico, nella certezza dell’assoluta riservatezza, farsi aiutare ed eventualmente indirizzare ai centri di assistenza, dove trovare persone specializzate anche in materia giuridica per meglio tutelare i propri diritti. D’altro canto gli stessi medici dovrebbero essere più attenti a certi segnali e porre alla donna domande anche dirette sulla causa dei malesseri dichiarati. “Signora, lei subisce atti di violenza?”: non è una domanda indiscreta o provocatoria, ma in molti casi è proprio la domanda che le donne si aspettano di sentire per poter finalmente raccontare le proprie sofferenze. Non dimentichiamo che una donna “violata” è sempre una donna “sola” che non sa cosa fare, a chi rivolgersi, come comportarsi con il proprio partner violento».
Dallo studio pilota realizzato dal vostro gruppo nella provincia di Venezia, quale realtà di violenza si evidenzia?
«L’indagine, realizzata in alcuni ambulatori dell’ASL 12 Veneziana e coordinata dalla dottoressa Giulia Perissinotto, si è articolata in due tappe di reclutamento, nel 2010 la prima e nel 2013 la seconda, per un totale di 184 donne, l’11% delle quali straniere. Negli ambulatori di tutta la provincia sono stati distribuiti questionari anonimi, tradotti in diverse lingue come inglese, francese, ma anche cinese, bengalese, pakistano. I risultati di questa indagine sono stati presentati per la prima volta al Congresso nazionale di Firenze. La prevalenza della violenza dichiarata era psicologica (44%), il 13% fisica, il 25% fisica e psicologica insieme, l’8% sessuale. L’età media delle donne è 50 anni, nel 63% sposate e conviventi, 51% con un lavoro. Nella maggior parte dei casi (44%) si tratta di violenza familiare, messa in atto dal marito, partner o ex-convivente e nel 73% dei casi sono episodi di violenza ripetuti. Le conseguenze della violenza sulla percezione dello stato di salute sono considerate gravi e abbastanza gravi nel 25% dei casi».
Quali sono i disturbi più frequentemente dichiarati?
«Sicuramente sono gli stati depressivi e ansiosi che richiedono un trattamento farmacologico nel 65%, evidenziando uno stretto legame tra violenza e uso di psicofarmaci. In percentuale inferiore si sono registrati disturbi come mal di testa e di stomaco e ricorrenti cistiti e vaginiti. Solo in rari casi, contusioni e fratture, spesso pregresse. E’ un grave errore “medicalizzare” la violenza. Non basta dare uno psicofarmaco per risolvere il problema, se è causato dalla violenza: occorre agire in modo più approfondito, con persone esperte, come lo psicologo o l’avvocato, che possono aiutare la donna a risolvere il problema alla radice. A Mestre opera il Centro Nazionale Antiviolenza (risponde al numero 1522) che coordina una rete di strutture a livello nazionale, con personale specializzato in grado di offrire consulenza telefonica e assistenza personale. In alcuni casi sono previste anche case-famiglia dove la donna può essere temporaneamente ospitata quando la convivenza diventa impossibile».
L’ambulatorio del medico di famiglia, può diventare allora un punto di riferimento iniziale, quasi uno “sportello aperto” dove parlare di questi problemi che creano ripercussioni sulla salute…
«Certamente questo progetto della SIMG è un tassello importante per sensibilizzare gli operatori, in particolare i medici di famiglia, che potrebbero davvero diventare i primi referenti e rappresentare uno sportello sempre aperto ad accogliere queste donne, spesso diffidenti o timorose a rivolgersi, in prima battuta, ad altre strutture sul territorio, di cui magari non conoscono neppure l’esistenza».
di Paola Trombetta