Riflettere su quanto possa essere difficile essere donna. Ma anche su quanto sia importante. Meraviglioso. O su quanto possa essere doloroso. Oggi ci si trova di nuovo insieme per dare forza alle nostre conquiste, per continuare a lottare per una condizione di vita migliore per le donne e per tutti. Per riflettere. Lo facciamo con Silvia Ballestra, scrittrice, classe ‘69, marchigiana, a Milano dal ‘95, due figli di quasi 15 anni e 10, che ai temi delle donne ha dedicato gran parte dei suoi libri, fatti di cronache e testimonianze. Anche nel suo ultimo romanzo da pochi giorni in libreria Amiche mie (Mondadori 2014; pp. 276; 16 euro) ci presenta storie di donne. Normali. Con i loro “eroismi” quotidiani. Donne come noi, che ci passano accanto o fanno parte della nostra vita, donne che la mattina, dopo aver accompagnato i bambini a scuola, condividono un caffè al Golden Palomino (archetipo dei bar milanesi) , e parlano di sé, di quello che succede intorno, passando dall’attualità politica alle lasagne “pelose” della mensa scolastica. E non smettono di sperare in un futuro migliore.
Le protagoniste del suo libro sono quattro donne in prima linea sulla frontiera della vita. Quattro donne che patiscono, soffrono, ma non crollano mai: finalmente un elogio delle donne normali…
«Vengo da una famiglia di zie, sorelle. Ho imparato che le donne hanno immense riserve di coraggio e dignità. Ho scritto questo romanzo proprio con l’intento di raccontare, studiare, celebrare seriamente le donne normali, le loro fatiche, le ansie, lo sconcerto di restare single a 40 anni dopo una separazione, la paura di non essere perfette sul lavoro, che per le donne è una sfida quando c’è e che troppe volte manca; poi i figli da crescere, le battaglie, i tradimenti, l’amore che nonostante tutto a volte resiste: occorre energia per svegliarsi di nuovo la mattina, per esserci, sopravvivere».
Partiamo da queste quattro amiche al bar. Da questa complicità che, caffè dopo caffè, diventa sempre più profonda… La solidarietà femminile esiste o è solo un mito trasmesso dal femminismo?
«La solidarietà fra donne ha goduto nei tempi pessima fama. Donne gelose, invidiose, astiose fra loro hanno riempito la letteratura. Si dice che gli uomini sanno fare squadra e le donne no. Si dice che fra tante donne, insieme, fa sempre capolino l’invidia, come se così non fosse per i maschi. Mah, ho l’impressione che la competizione fra donne sia soprattutto uno stereotipo maschile di comodo, un potente alibi degli uomini per dividerle e tenerle lontano dal potere. Ci sono mille “si dice” sulle donne: dimostrare il contrario è la sfida dei tempi. Un ambito in cui le donne devono riscoprire la solidarietà è proprio nell’aiutarsi a “resistere” in un mondo che ha sempre cercato di tenerle lontano dal potere decisionale. Fare squadra. Tutte. In questo la penso come la columnist del Times, Janice Turner: se vogliamo apportare un qualsiasi dannato cambiamento, “la solidarietà deve abbracciare sia le donne che lavorano che le ragazze che scuotono il sedere”. La solidarietà non è però, dal mio punto di vista, acritica difesa di ogni scelta che le donne fanno. Se io penso che “scuotere il sedere” sia un comportamento inadeguato, pericoloso, irresponsabile da parte di una donna, trovo sia importante dirlo, forte e chiaro».
“Una donna in Italia vale la metà di un uomo”: è uno dei dati più impressionanti usciti da una ricerca condotta dall’Istat per l’Ocse e finalizzata a misurare il “capitale umano”, cioè la capacità di generare reddito in una vita. Come mai?
«Perché le italiane lavorano (almeno fuori casa) in percentuale minore rispetto agli uomini e, anche quando lo fanno, percepiscono remunerazioni nettamente inferiori a quelle maschili. Come in altre graduatorie, il nostro Paese si conferma agli ultimi posti tra i paesi Ocse».
A che punto siamo?
« Le donne rappresentano una grande potenzialità che il nostro Paese non riesce ancora a valorizzare del tutto. Per ogni donna in carriera, ce ne sono quattro che non trovano lavoro, o che rinunciano al lavoro per la maternità, o rinunciano alla maternità per il lavoro. La parità dei ministri nel nuovo governo è una svolta storica, magari solo di facciata, ma sicuramente molto forte a livello simbolico; non era affatto scontato, invece è successo. Come non è ancora scontata e realizzata in altri campi, la parità, e per questo c’è ancora molto da fare. Se c’è una cosa che ho imparato in questi anni è: non dare mani niente per scontato. Le conquiste vanno difese, perché sono continuamente sotto assedio non solo sul lavoro, la maternità, in qualsiasi campo. Per costruire un futuro migliore, è necessario far conoscere e mantenere viva la storia delle conquiste femminili. Oggi, di quel “movimento” ci sono soltanto poche tracce, e il silenzio sembra aver di nuovo inghiottito sogni e voglia di cambiare. Se ne accorgono forse tardi le ragazze: negli studi hanno pari opportunità, vanno meglio dei maschi ottengono risultati brillanti. Poi entrano (quelle che ce la fanno) nel mondo del lavoro, e toccano con mano le discriminazioni, spesso esercitate in modo subdolo; si trovano spiazzate e svantaggiate perché davano per scontato diritti e conquiste, allora si accende in loro una lampadina».
Perché è così difficile fare passi avanti nel nostro Paese? Un piccolo esempio: il diritto dei figli a portare il cognome materno è ancora bloccato…
«I nuovi livelli di autonomia femminile sono accettati più come idea generale che come prassi: continuano a essere le donne a occuparsi pressoché esclusivamente della sfera domestica, anche quando svolgono un lavoro extrafamiliare. Il costume, i luoghi comuni che in passato hanno pesantemente contribuito a tenere la donna in una condizione di subordinazione, non sono in realtà mutati di molto. Gli stessi media propongono, ad esempio con la pubblicità, dove predominano modelli femminili, vuoti che evidenziano esclusivamente bellezza e seduzione. Altrove è diverso. Mi auguro che anche questo Paese diventi più civile».
La violenza sulle donne. E’ davanti ai nostri occhi, cronaca nera dopo cronaca nera: è in atto un vero massacro…
«Finalmente se ne parla, prima questi delitti passavano sotto silenzio! E i dati parlano chiaro: il novanta per cento delle violenze le donne le subiscono in famiglia. Uomini che uccidono le proprie mogli, figlie, fidanzate. E lo fanno per un semplice motivo: il possesso. Per continuare a mantenere un controllo sulla donna. Per ridurla a mero oggetto di possesso. La donna muore perché si ribella».
L’augurio che fa alle donne?
«Amiche mie, fate vedere che ci siete, ci siamo. Chi non ha ancora teso la mano ci provi. Solidali sì, e anche, talvolta, avversarie, ma mai nemiche: così vorrei che guardassimo, e fossimo, le une verso le altre. Perché senza solidarietà non c’è accoglienza, la società rischia di trasformarsi in una giungla dove vince la legge della sopraffazione».
di Cristina Tirinzoni