IL FEMMINILE ESISTE: USIAMOLO!

Donne, grammatica e media. Una guida consultabile da tutti, ma pensata soprattutto per giornaliste e giornalisti, per un uso della lingua italiana rispettoso dell’identità di genere. Affinché l’informazione riconosca, rifletta e rispetti le differenze, a partire da un uso corretto del linguaggio. Perché il femminile esiste, basta usarlo.

Abbiamo intervistato l’autrice, Cecilia Robustelli, docente di Linguistica Italiana all’Università di Modena e Reggio Emilia, che collabora con l’Accademia della Crusca, la più insigne accademia della lingua italiana, sui temi del genere e della politica linguistica italiana in Europa

Ministro Maria Elena Boschi o la ministra Boschi? Potrebbe sembrare un problema linguistico trascurabile, come obietta qualcuno….

E invece è un passaggio cruciale. Ragionare su linguaggio e comunicazione significa ragionare sulle basi dei modelli culturali e delle relative rappresentazioni/percezioni. Occorre dare visibilità alla presenza femminile anche nel linguaggio. Professioni e funzioni, per anni di esclusivo dominio maschile, sono invece oggi rivestite da uomini e donne indifferentemente e, anche se siamo molto lontani dal vivere in una società che garantisce pari opportunità a entrambi i generi, ci sembra doveroso che anche il linguaggio comune esprima questa nuova realtà. Non si tratta affatto di un contentino lessicale, ma di un contributo essenziale alla valorizzazione delle donne e dei loro ruoli. La scelta delle parole non è solo forma La lingua non è qualcosa di asettico, ma racchiude e propone una precisa visione del mondo. Rispecchia la cultura della nostra società  È attraverso il linguaggio che comunichiamo, esprimiamo concetti, sentimenti, intenzioni; attraverso il linguaggio contribuiamo al mantenimento e talvolta persino al rafforzamento degli stereotipi e dei ruoli di genere tradizionali. L’accesso delle donne a nuove attività, professioni e posizioni istituzionali e la loro conquista di ruoli tradizionalmente occupati dagli uomini rappresentano un passo decisivo verso il raggiungimento della parità tra uomini e donne sulla scala sociale, politica e economica. Questo percorso ascendente della figura femminile non è rispecchiato, finora, nelle strutture della lingua italiana. Specialmente nel campo delle professioni, il prestigio sembra legato solo alla forma maschile.

Lei parla di sessismo linguistico…

La questione del sessismo linguistico non può però essere ridotta alla scelta fra le forme ministro/ministra, come hanno fatto i media. La discriminazione di genere che ancor oggi, e non solo in Italia, vede le donne in posizione di svantaggio rispetto agli uomini in campo professionale, economico, sociale, familiare, si manifesta anche nel modo in cui esse vengono descritte attraverso il linguaggio. Il sessismo linguistico è un atteggiamento che si rivela in abitudini stereotipate e cristallizzate nella lingua, di cui spesso non ci si accorge, ma che, ad un’occhiata un po’ più attenta, vengono fuori. Non si capisce perché il femminile di termini che indicano professioni, per così dire, meno ‘alte’, come infermiera, operaia si usa tranquillamente, mentre se si passa a impieghi di grado più ‘elevato’ come ‘avvocato’, ‘ministro’, si tende invece a mantenere il maschile anche se a rivestire tali ruoli sono le donne. Correttezza vorrebbe che si dicesse ‘avvocatessa’, architetta e ‘ministra’. La cultura cambia e la lingua, soprattutto, evolve. Le parole esistono: la lingua, per analogia, le ha elaborate, basta solo usarle!

La prima ed importante azione di visibilità , dunque, per le donne è quella di “apparire” anche nella lingua?

Un uso più consapevole della lingua contribuisce a una più adeguata rappresentazione pubblica del ruolo della donna nella società, per poter realizzare quel salto di qualità nel modo di vedere la donna che oggi si chiede alla società italiana.  E il linguaggio è uno strumento indispensabile per attuare questo processo: quindi, perché tanta resistenza a usarlo in modo più rispettoso e funzionale a valorizzare il genere femminile?

Come risponde a chi sostiene che certi femminili “suonano male’?

Dico che è solo questione di abitudine alle parole nuove. Oggi diciamo senza problemi vigilessa e soldatessa. Ci abitueremo anche a dire ingegnera, avvocatessa. E’ ora di uscire da questo atteggiamento di inerzia dei parlanti nei confronti della tradizione. Il problema non è infatti delle parole. La nostra lingua conosce la distinzione di genere, non ci sono motivi strutturali per non farlo. Così come si dice impiegata si può dire deputata, così come si dice ragioniera si può dire ingegnera, così come si dice casalinga si può dire architetta., ministra, prefetta, notaia, primaria, sindachessa. Le resistenze all’uso del genere grammaticale femminile, per molti titoli professionali o ruoli istituzionali ricoperti da donne, non dipende da fattori linguistici  ma di tipo culturale, appunto. Riflette cioè l’esitazione ad accettare che certe figure professionali, per tradizione associate al maschile, siano riconducibili alle donne.

 

La preferenza per l’uso del maschile è molto diffusa proprio fra le donne. Ci sono infatti tante donne che preferiscono essere chiamate avvocato e non avvocatessa o avvocata….

Questo valeva sopratutto in passato. Fino alla fine degli anni Ottanta, era motivo di orgoglio essere incluse nel mondo linguistico maschile. Per le donne che raggiungevano posizioni professionali o occupavano ruoli istituzionali di prestigio, sentirsi chiamare direttore, architetto, consigliere o chirurgo rappresentava una prova della tanto sospirata parità. Oggi l’uso del genere maschile esteso alle donne  non suona più  paritario, ma sessista. E allora, perché nella società si diffonda e si consolidi sempre di più l’idea che le donne sono perfettamente in grado di ricoprire gli stessi ruoli degli uomini, iniziamo dalla lingua, auspicando la presenza, sulle pagine dei giornali e nelle conversazioni di tutti i giorni, di tante ministre, chirurghe, sindachesse, architette… finché l’uso di queste parole non stonerà più alle orecchie di nessuno. Diversamente, il rischio è quello di continuare a trasmettere, attraverso il linguaggio, una visione del mondo superata, densa di pregiudizi verso le donne e fonte di ambiguità.

Come si comporta la stampa?

La situazione è ancora ambigua. Si nota una maggiore attenzione, da parte dei media, a usare il genere femminile per i titoli professionali e i ruoli istituzionali: sui maggiori quotidiani l’uso di parole come ministra e deputata è triplicato nel quinquennio 2006-2010 rispetto al precedente. Ma il termine ministra, chirurga, ingegnera è spesso ancora usato in senso ironico, suscitando alternativamente dileggio e timida approvazione.

Cosa pensa del cosiddetto maschile ‘neutro’? In molte lingue, italiano compreso, il  termine “uomo” è usato in un’ampia gamma di espressioni idiomatiche che si riferiscono sia agli uomini sia alle donne…

Che non è appropriato, ma continua a circolare: si sostiene, salomonicamente, che il maschile si può usare ‘in senso neutro’. Ma il ‘maschile neutro’ non esiste. Il genere grammaticale maschile evoca nella nostra mente un uomo, quello femminile una donna. Con un minimo di sforzo e di attenzione è possibile invece sostituire, il termine “uomo” con equivalenti che includano persone dei due generi. Ad esempio persona, essere umano, individuo. Ove possibile, è auspicabile l’uso di termini collettivi che coprano ambo i sessi, ad esempio, la magistratura anziché i magistrati.

Nei paesi europei viene usato il femminile?

Sì, anche regolamentato dalle istituzioni. Per fare qualche esempio, in Francia, in Austria, in Svizzera si usa normalmente il linguaggio ‘di genere’ anche negli atti ufficiali.

Nel  nostro paese a che punto siamo sul fronte istituzionale?

Un forte richiamo alla necessità di usare un linguaggio non discriminatorio in tutti i documenti di lavoro (relazioni, circolari, decreti, regolamenti, ecc.) era contenuto già nella  direttiva del 23 maggio 2007. Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche, sono contenute nella Direttiva 2006/54/CE del Parlamento e del Consiglio europeo. Comuni, province e regioni hanno adottato iniziative individuali in genere lodevoli, ma queste purtroppo non sono state coordinate, cosicché non è raro trovare, anche all’interno della stessa regione, comportamenti diversi
(l’Accademia della Crusca ha collaborato con il Comune di Firenze al progetto Genere&Linguaggio e alla pubblicazione delle prime Linee guida per l’uso del genere nel linguaggio amministrativo).

di Cristina Tirinzoni

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