Non sono bastate tante ore di sonno o una lunga vacanza. In alcuni casi, addirittura, l’estate potrebbe aver coinciso con il manifestarsi della malattia. La Sindrome da Fatica Cronica (CFS), una patologia dalla prevalenza femminile (solo in Italia colpisce circa 200-300 mila persone, donne e giovani in particolare), inizia in sordina sei mesi prima (di solito gli esordi si hanno d’inverno in concomitanza con malattie di carattere virale, come bronchiti anche croniche) con sintomi simili a una pseudo-influenza e che perdurano nel tempo. La CFS infatti è spesso post-infettiva: una reazione anomala dell’organismo a un virus il quale poi se ne va, ma lascia il suo strascico, che è perenne e si acuisce perfino con piccoli sforzi, rendendo del tutto impossibile una vita normale. E nei mesi estivi, le alte temperature (ma anche altre condizioni ambientali, come inquinamento o intolleranze atmosferiche) potrebbero aver peggiorato la sintomatologia, rendendo difficile anche il soggiorno nei luoghi di villeggiatura. Ma non sarebbe migliorata neppure restando in città, o applicandosi allo studio come fanno i giovani, che a volte sono costretti ad abbandonare la scuola e l’università perché incapaci di tollerare “quella fatica”, che solo qualche tempo prima era invece compatibile con la quotidianità e con il loro fisico. A peggiorare le cose di questa patologia già molto severa, è che può accompagnarsi anche ad altre sintomatologie, anch’esse più o meno importanti, e che non risponde alle normali terapie.
Eppure questa “fatica” è mal riconosciuta anche da chi ne è colpito o dagli specialisti che la sottovalutano o la confondono con uno stato depressivo, con il quale potrebbe condividere alcuni sintomi iniziali. «La netta differenza fra le due problematiche – spiega il professor Umberto Tirelli, primario della Divisione di Oncologia Medica dell’Istituto Nazionale Tumori di Aviano (Pordenone) (www.umbertotirelli.it) – sta nella diversa motivazione alla vita: i pazienti affetti da CFS hanno gli interessi di una qualsiasi persona – stare con gli amici, avere rapporti di coppia – ma non sono fisicamente in grado di portare avanti i loro obiettivi. Chi è affetto da depressione e arriva al suicidio, invece, perde la passione verso tutto ciò che lo circonda: se stesso, la famiglia, la socialità e il lavoro compreso». A fare luce su questa problematica, i suoi risvolti e implicazioni è un libro, uscito di recente, scritto dallo stesso Tirelli: La stanchezza quando diventa una malattia (SBC edizioni). Con l’autore abbiamo fatto una chiacchierata più generale.
Oltre all’uscita del Suo libro, c’è anche un’altra importante novità che riguarda la CFS: l’emissione di un documento dell’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (Age.na.s.). Di che si tratta?
«È un testo messo a punto da diversi specialisti, sotto l’egida di questa agenzia, che è stato presentato nel corso di un convegno tenutosi al Ministero della Salute nei mesi scorsi il quale informa sulle ultime acquisizioni scientifiche riguardo alla CFS».
Perché la decisione di stilare un documento?
«È stata una necessità per fare chiarezza sulla malattia. Il documento ha infatti l’intento di colmare da un lato la lacuna importante dell’assenza delle istituzioni verso la patologia, lamentata da molte pazienti, diventando un riferimento per medici, malati e familiari. Dall’altro di portare l’attenzione su una problematica femminile spesso sottodiagnosticata e qualificandola soprattutto come “malattia di genere”. Sono infatti le donne, come conferma il documento, a soffrire maggiormente di questa patologia in un rapporto di 2-3 a 1, rispetto all’uomo».
Qual è la ragione di questa prevalenza?
«Le ragioni sono sia di carattere fisiologico – la donna è maggiormente predisposta ad andare incontro alle infezioni rispetto all’uomo – ma anche di natura socio-culturale per il doppio carico lavorativo giornaliero che impegna la donna in occupazioni professionali, familiari e domestiche».
Come si caratterizza la CFS?
«Si può parlare di sindrome da fatica cronica quando la stanchezza persiste da almeno sei mesi, non è alleviata dal riposo, si aggrava con piccoli sforzi e provoca una sostanziale riduzione delle prestazioni delle attività occupazionali, sociali o personali. Deve inoltre essere accompagnata da almeno altri quattro sintomi, che perdurano nel tempo, quali disturbi della memoria e della concentrazione tali da influenzare il rendimento e la qualità delle attività dalle più semplici a quelle più impegnative, faringite, dolori delle ghiandole linfonodali, cervicali o ascellari, dolori muscolari e delle articolazioni senza infiammazione o con rigonfiamento, cefalea e debolezza a seguito di esercizio fisico che perdura per almeno 24 ore. Da questo contesto devono però essere escluse tutte le condizioni mediche che possono giustificare i sintomi di stanchezza, tra cui ipotiroidismo, epatite B o C cronica, patologie oncologiche, depressione maggiore, schizofrenia, demenza, anoressia nervosa, abuso di sostanze alcoliche e obesità».
Quindi è scorretto pensare che la CFS sia una forma di depressione?
«Sì, la maggior parte di donne (o di pazienti) affette da questa patologia non soffrono di malattie psichiatriche, ma possono diventarne una conseguenza. È possibile in talune situazioni osservare la comparsa di depressioni reattive per l’impatto che la fatica cronica causa sulla qualità della vita, sia da un punto di vista sociale, sia relazionale o lavorativo. O ancora è riscontrabile un indebolimento cognitivo che riguarda soprattutto la difficoltà di elaborazione delle informazioni o lo sviluppo di disturbi di memoria e attenzione».
Come mai la stanchezza è generalizzata e ha diverse implicazioni?
«La ragione potrebbe essere genetica. Le ultime acquisizioni sulla biologia della malattia hanno evidenziato che la sindrome da fatica cronica potrebbe essere caratterizzata dall’espressione alterata di alcuni geni importanti per il metabolismo energetico che non riescono più a controllare gli enzimi presenti in ogni cellula, quelli cioè che nel nostro organismo sono deputati a trasformare e metabolizzare l’energia derivante da alcune sostanze chimiche naturali».
La CFS espone maggiormente anche alle infezioni?
«Sì, è possibile assistere a stato di infezione latente, più frequente con alcuni tipi di herpes virus (virus dell’Epstein Barr, HHV-6 e citomegalovirus), entero virus e agenti infettivi (batterio della malattia di Lyme, virus di Ross River e febbre Q) che possono essere corresponsabili nello scatenare la stanchezza cronica».
Come si cura la CFS?
«Al momento, purtroppo, non vi è una terapia farmacologica che possa guarire definitivamente la malattia. Alcuni benefici possono comunque derivare da un trattamento con antivirali, corticosteroidei, immunomodulatori, integratori e da modifiche dello stile di vita. Questi espedienti possono portare nella migliore delle ipotesi alla guarigione e nella maggior parte dei casi a una significativa riduzione della sintomatologia».
Qual è l’impegno della Sua struttura per un migliore approccio alla malattia?
«All’Istituto Tumori di Aviano sono stati realizzati una serie di studi, tra i quali la valutazione delle alterazioni immunologiche nei pazienti con CFS o delle alterazioni cerebrali con una sofisticata metodologia di diagnosi radiologica, la PET, per valutare un’eventuale correlazione con lo sviluppo di tumori maligni. Sono poi in corso anche ricerche per l’identificazione di nuovi farmaci, in particolare immunoglobuline ad alte dosi, magnesio, acetilcarnitina, antivirali come amantadina e acyclovir ed immunomodulatori come timopentina di cui, per alcuni, stiamo già studiando gli esiti».
A che punto siamo con la ricerca su questa malattia?
«In Italia si stanno facendo importanti passi in avanti per lo studio e il trattamento, grazie anche al lavoro delle associazioni dei pazienti (Associazione Italiana CFS Onlus di Aviano: www.stanchezzacronica.it – cfs@cro.it e l’Associazione Malta di CFS Onlus di Pavia: www.associazionecfs.it – art.disco65@virgilio.it) che stanno contribuendo a creare maggiore consapevolezza sulla severità e diffusione della malattia, a dare supporto ai malati e ai familiari, a sviluppare nel nostro paese una campagna di sensibilizzazione, creando anche “un’alleanza” in rete con associazioni internazionali. Accanto a questo vi è poi l’importante lavoro di alcune commissioni parlamenti che hanno presentato la proposta di legge per il riconoscimento della CFS quale malattia invalidante, utile anche all’ottenimento dell’esenzione dalla partecipazione al costo per le prestazioni di assistenza sanitaria».
di Francesca Morelli