«Ho scoperto di essere sieropositiva durante le analisi per la prima gravidanza… non aggiungo altro. Potete immaginare per una donna la notizia più bella del mondo unita alla più brutta? Altro che pessimismo, credevo di morire… Il mio compagno, che ora è mio marito, essendo un ex-tossicodipendente mi aveva trasmesso il virus. Non esistono parole per spiegare quello che ho passato. Oggi ho due bimbe bellissime che amo più della mia vita. Purtroppo ho sempre il peso sulla coscienza di averle cresciute in grembo, mentre assumevo la terapia contro l’Hiv, e spero che ciò non influirà sul loro futuro. Sto bene e ce la voglio fare per le mie figlie che mi danno una forza incredibile. Mio marito? Ogni tanto, dentro di me, lo maledico, ma d’altronde dopo 23 anni che devo fare? È lui il primo a tormentarsi per “quello che mi ha fatto”. Ma io voglio vivere, vivere!!!».
Il caso di Angela rientra nel 38% delle donne sieropositive che si accorgono di esserlo facendo il test in gravidanza. Un’incidenza in aumento che conferma come le donne siano più a rischio di essere “inconsapevolmente” infette. Per loro in particolare, affinché siano informate sui rischi di contrarre questa infezione, è partito il Progetto di prevenzione al femminile, promosso da LILA Onlus (www.lila.it) che prevede iniziative in tutt’Italia per la Giornata dell’AIDS del 1° dicembre e fino al 7 dicembre prosegue la Campagna di raccolta fondi chiamando il numero: 45508 (vedi news).
«L’età più vulnerabile è quella fertile (25-35 anni) e la donna, a differenza dell’uomo, vive in modo più drammatico questa notizia, perché l’infezione è inaspettata, trasmessa nell’ambito familiare da partner stabili, mentre nell’uomo intervengono soprattutto i rapporti occasionali e a rischio», commenta la professoressa Antonella d’Arminio Monforte, direttore del Centro di Malattie infettive all’Ospedale San Paolo di Milano e coordinatrice del Progetto WIN (Women Infectivology Network) che si propone di affrontare le tematiche mediche e psico-sociali delle donne con infezione da Hiv. «Non a caso la metà delle donne in età fertile affette da HIV non vuole avere figli, per paura di trasmettere l’infezione. Un timore frutto di pregiudizi, spesso legati a scarsa informazione e scorretta comunicazione col proprio medico. Grazie alle nuove terapie antiretrovirali, il rischio di trasmettere l’infezione al figlio è oggi inferiore all’1%: una terapia ben seguita per tutta la gravidanza, il ricorso eventualmente al parto cesareo (ma anche a quello naturale con opportuna profilassi per evitare la trasmissione dell’infezione al feto), la somministrazione di un’adeguata terapia al neonato, l’allattamento artificiale, l’impediscono l’infezione del piccolo. Da sfatare anche il timore che a trasmettere l’infezione al neonato sia il padre: il virus non può contagiare il feto, ma al limite potrebbe infettare la madre all’atto del concepimento. Per evitarlo si può ricorrere all’inseminazione o a tecniche di fecondazione assistita, con lavaggio dello sperma. Oppure, se l’infezione è ben controllata con i farmaci, si può consigliare la coppia di avere rapporti non protetti solo nei giorni dell’ovulazione».
Oggi le nuove combinazioni di farmaci antiretrovirali (inibitori delle proteasi, delle integrasi, della trascrittasi inversa) sono in grado di bloccare l’attività di tutti quegli enzimi che favoriscono la replicazione del virus e azzerare la carica virale. L’ultimo farmaco di questa categoria oggi in commercio (Stribild), ha appena ottenuto la rimborsabilità: si assume in una sola compressa, una volta al giorno, e contiene ben quattro principi attivi. «Questa combinazione include un potente antivirale (elvitegravir), della famiglia degli inibitori dell’integrasi in grado di esercitare un’azione rapidissima di soppressione del virus», conferma il professor Giovanni Di Perri, ordinario di Malattie infettive all’Università degli Studi di Torino. «Negli ultimi anni le cosiddette “single tablet regimen”, ovvero terapie con una sola compressa, hanno rivoluzionato la vita dei pazienti perché garantiscono una maggiore efficacia e una maggiore adesione al trattamento, proprio per la comodità di assunzione. E sono meglio tollerate anche nei casi di comorbidità con altre malattie».
di Paola Trombetta
L’AIDS NON MI RIGUARDA: OTTO ITALIANI SU 10 NON SI SENTONO A RISCHIO
Otto italiani su 10 non si sentono a rischio Hiv perché confidano nelle proprie abitudini e comportamenti, e il 90% ritiene che avere rapporti sessuali protetti sia il metodo più efficace per non contrarre l’infezione, mentre una quota del 17% ritiene che il modo migliore per evitare il virus sia di non avere contatti con le persone sieropositive. Sono alcuni dati emersi dalla ricerca Gfk Eurisko, con il supporto di Gilead, che ha coinvolto oltre mille soggetti in tutt’Italia, indagando sulle conoscenze degli italiani relative all’Hiv e sulla percezione del rischio del contagio. «Dal sondaggio emerge, comunque, un quadro contraddittorio», fa notare la dottoressa Isabella Cecchini, direttore del Dipartimento di Ricerche sulla Salute di Gfk Eurisko. «Se da un lato le persone intervistate non si sentono a rischio personale, il 60% degli italiani pensa che sia facile contrarre il virus dell’Hiv da parte di tossicodipendenti, persone con relazioni promiscue, omosessuali. Ed ecco un’ulteriore contraddizione: solo due italiani su 10 considerano a rischio di contagio gli eterosessuali, mentre l’eziologia della malattia dimostra che le nuove infezioni avvengono soprattutto nella categoria degli eterosessuali (40%). Questi risultati dimostrano come ancora oggi la percezione del malato di Hiv sia legata a stereotipi e false credenze che tendono a ghettizzare i malati di Hiv nella categoria dei tossicodipendenti, rimuovendo il rischio personale». (P.T.)