Non si è ancora spenta l’eco degli attentati di matrice islamica che hanno di recente sconvolto Parigi e il mondo intero. Il rischio terrorismo è ufficialmente in scena ogni giorno ma, a rendere la vita di oggi simile a un percorso seminato di trappole mortali, si aggiungono altre minacce: venti di guerra, ingegneria genetica, energia atomica, inquinamento e buco nell’ozono, nuove malattie come Ebola, tecnologie dagli effetti oscuri come gli ogm o l’elettrosmog insieme ai disastri naturali… Ma incertezza e rischio fanno parte dello sfondo del nostro agire quotidiano anche nelle mille piccole decisioni che prendiamo ogni giorno: mentre ci domandiamo se la nostra nuova storia d’amore durerà in eterno, quando vogliamo investire i nostri sudati risparmi, o più semplicemente quando vogliamo comprare un nuovo paio di scarpe (meglio marroni o forse quelle nere?).
La decima edizione del Festival delle scienze di Roma è stata dedicata ad approfondire l’argomento “Ignoto”. E a come imparare a essere a nostro agio nell’incertezza, a livello collettivo e individuale.
E proprio sul “rischio e le nostre ossessioni”, abbiamo sentito Simona Morini, filosofa, docente di Teoria delle decisioni razionali e dei giochi e di Filosofia della scienza all’Università Iuav di Venezia, nonché autrice del saggio “Il rischio, da Pascal a Fukushima” (Bollati Boringhieri).
Cos’è il rischio?
«Il rischio è, tecnicamente, la probabilità che si verifichi un evento indesiderato. Quanto più grande è la probabilità e quanto più è indesiderato l’evento, maggiore è il rischio. Mentre il pericolo va temuto, affrontato o esorcizzato, il rischio lo si può solo assumere, calcolare o ridurre, pur in modo parziale e imperfetto. In fondo “rischio” è diventato un concetto centrale nella cultura contemporanea solo con l’irrompere delle idee della Riforma Protestante, che pone fortemente l’accento sul concetto di libertà individuale che va legato a quello di responsabilità. Il rischio, che ha a che fare con il danno e la prevenzione, il calcolo e la probabilità, ha sostituito il fato, la fortuna o destino».
Viviamo in un mondo più rischioso, o abbiamo noi una percezione deformata della realtà perché siamo angosciati dai cambiamenti?
«C’è qualcosa, nel rischio di oggi, che lo rende diverso da quello legato ai pericoli naturali che gli uomini si sono trovati ad affrontare nel passato. Abbiamo la consapevolezza che ogni rischio è conseguenza delle azioni e delle decisioni dell’uomo. Il nuovo identikit del rischio è caratterizzato dalla globalizzazione: in un sistema “globale”, con un numero imprecisato di parametri e di informazioni, le nuove scoperte scientifiche hanno esiti difficili da prevedere e controllare. La prima modernità era stata segnata dall’idea di progresso, lo sviluppo della scienza e della tecnologia ha avuto effetti positivi (in alcuni casi straordinari), ma nello stesso tempo ha creato paure nuove, spesso ingiustificate, di cui ci riempiamo la vita: siamo ossessionati dal cibo biologico eppure viviamo in un mondo in cui si campa fino a novant’anni. Bel paradosso!».
Come lo spiega?
«Viviamo in una società che vorrebbe eliminare ogni rischio e a tal fine genera ed esalta ansie e timori di ogni tipo: catastrofi, terremoti, terrorismo, disastri nucleari, epidemie. Possediamo dei saperi che ci permetterebbero di evitare certi pericoli e invece, magari per convenienza, creiamo rischi e ci esponiamo ai pericoli. Ecco il paradosso. La nostra è la società del maniglione antipanico. Siamo immersi nella paura di correre rischi continui e pensiamo di prevenire le disgrazie con le uscite di sicurezza. Non si possono prevenire tutti i disastri, adottando misure ridicole in preda alla mania di sicurezza. Pur di non finire nei pasticci si usano cautele eccessive. Un esempio? In molte scuole i bambini non possono più usare le forbici perché se qualcuno di loro si fa male i genitori possono rivalersi sugli insegnanti. Un attore non può accendersi una sigaretta su un palco durante uno spettacolo senza il permesso dei vigili del fuoco, ma poi un teatro brucia per un cavo difettoso…».
La sicurezza è diventata un’ossessione?
«La sicurezza non è il contrario del rischio, quanto piuttosto la sua infantile rimozione psicologica! Anche se ciò non ci piace, l’incertezza è un elemento imprescindibile della vita, una costante con la quale dobbiamo convivere. È una posizione infantile e superficiale quella che si fonda sulla negazione dell’imprevedibile o addirittura sulla speranza di eliminarlo magicamente. L’imprevedibile esiste e non è eliminabile. Analisi e modelli teorici non possono cogliere elementi assolutamente banali o fortuiti, che pure hanno influito in modo significativo, per fare un esempio, sugli avvenimenti di Fukushima: dal topo che avrebbe rosicchiato i fili elettrici dell’impianto di fortuna rocambolescamente messo insieme dai tecnici per garantire il raffreddamento del reattore, alle follie burocratiche per cui due camion dei pompieri messi a disposizione della diplomazia USA, che sarebbero stati utilissimi per fornire l’acqua necessaria a raffreddare i reattori, sono stati bloccati in quanto non erano registrati in Giappone e quindi non avevano il permesso di circolazione sulle strade».
Rispetto al passato siamo disposti ad accettare di più il rischio e per cosa?
«Non che la natura non faccia paura quando si pensa a frane, alluvioni, terremoti… ma ad allarmare di più sono, come dicevo, le paure connesse al progresso scientifico e tecnologico: un disastro nucleare, l’inquinamento, la contaminazione del cibo. Solo di fronte a scopi condivisi e convincenti gli individui oggi sono disposti a tollerare un certo grado di incertezza in termini di potenziali rischi e conseguenze inattese ».
Indifferenza e agitazione allarmata spesso si alternano in modo improvviso e radicale…
«Il secondo ordine di problemi riguarda proprio l’informazione e disinformazione. Dalle informazioni che ci arrivano dai media, sembra non sia consentita altra lettura che quella negativa e catastrofica. Ne deriva che la percezione del rischio rivolta al futuro risulta grandemente distorta in senso pessimistico. In un clima del genere è facile farsi prendere dalla paura. Di fronte al pericolo è normale reagire con un istinto primordiale: la paura è un meccanismo psicologico (o meglio, un sentimento) essenziale, come abbiamo visto, alla nostra sopravvivenza e quindi connesso a uno degli obbiettivi primari della specie animale a cui apparteniamo; ma che è anche all’origine dei comportamenti che chiamiamo “irrazionali”, ed è anche la nemica “dell’intelligenza” del rischio, indispensabile per far fronte alle sfide inedite del nostro tempo. La paura viene invece istituzionalizzata e si alimenta così un senso di impotenza e vulnerabilità. Chi ha potere gioca generandone su alcuni temi e smorzandola su altri. E proprio la politica è il punto debole nel mondo di oggi».
Quali atteggiamenti e precauzioni adottare, a livello individuale e collettivo, di fronte al gran numero di rischi che incombono sul nostro futuro?
«Mi sembra importante essere anzitutto consapevoli dei tanti elementi – psicologici, sociologici, politici e culturali – che influenzano la nostra percezione e valutazione del rischio. L’insieme complesso delle nostre “irrazionalità” – che comprendono pregiudizi, paure, aspettative – è stato studiato a fondo da neurofisiologi, psicologi, filosofi, sociologi, economisti. Possiamo imparare a esserne consapevoli: questo ci consentirebbe di riappropriarci di un potere, anziché esserne vittime, e di fare di questi nuovi strumenti di previsione, degli alleati. A questo punto si potranno prendere decisioni libere, ma più consapevoli. Si potrà anche scegliere di violare le regole della razionalità, ma sapendo quel che si sta facendo».
Alla fine cosa significa davvero rischiare?
«Creare le condizioni perché, in situazioni poco sicure, le opportunità prevalgano sui pericoli. È questa la grande sfida del mondo contemporaneo. Il rischio va accettato come opportunità di crescita. D’altro canto l’incertezza è una risorsa ineguagliabile. Permette di cimentarsi nell’adattamento a circostanze prima sconosciute, aguzza l’ingegno, ridistribuisce importanza alle cose, ridefinisce gli schemi, crea alternative. E ci spinge a intraprendere il “folle volo”: per andare a vedere. Come ha osservato giustamente il neuroscienziato Read Montague, l’incertezza ha esercitato una pressione evolutiva sui meccanismi di apprendimento che ci ha portato a essere quello che siamo. Il mondo, nonostante tutto, è migliore di quello che sembra. E può essere ancora migliorato facendo uso degli strumenti della ragione».
di Cristina Tirinzoni