Ha 50 anni, Ivan Gardini, fondatore e presidente di Epac, l’Associazione di Pazienti con Epatite C, e alla spalle già due trapianti di fegato. Una condizione eccezionale (il terzo trapianto non sarebbe consentito) che gli ha permesso di vivere per vent’anni. «Tutto è cominciato casualmente a 33 anni, quando scopro di avere una dermatite, racconta Ivan. Dopo un anno e mezzo di peregrinazioni da diversi specialisti, incontro un infettivologo che, tra i tanti test, mi prescrive anche quello per l’epatite C, che risulta positivo. Ma non solo, l’epatite era a uno stadio così avanzato che avevo già una cirrosi. E tutto questo senza mai avere sintomi, se non un semplice sfogo cutaneo. Dopo due anni le mie condizioni si aggravano e mi mettono in lista per il trapianto di fegato all’Ospedale Molinette di Torino. L’intervento riesce bene, ma la mia vita viene stravolta, prima dalla notizia della malattia, che fa allontanare i miei affetti più cari. La persona che mi stava vicino era impreparata ad affrontare tutti i sacrifici che la mia condizione di malato comportava: lunghi ricoveri per il trapianto, continui malesseri causati dalla malattia e dai farmaci che dovevo assumere e il rischio, pur remoto, di contrarre l’infezione. Ma forse il sacrificio più grande era quello di dover convivere con una persona cambiata dalla sofferenza, diversa da quella conosciuta e amata».
«Dopo i primi dieci anni di sacrifici – continua Ivan – il virus (che non era mai scomparso dal sangue) ha demolito pure il nuovo fegato, tanto da rendere necessario un secondo trapianto, eseguito questa volta agli Ospedali riuniti di Bergamo. Nell’occasione, dopo il trapianto, mi avevano dato solo pochi anni di vita, perché il virus era ricomparso in maniera molto aggressiva, ma per fortuna sono riuscito a entrare nella sperimentazione, per uso compassionevole, di un nuova classe di farmaci (Inibitori di prima generazione) che colpiscono direttamente il virus. Da quel giorno tutto è cambiato! Sono rinato, recuperando pienamente anche i rapporti con i miei cari, che mi hanno visto finalmente riscattato dalla malattia. E tutto questo è stato possibile grazie alle innovative terapie che riescono a eradicare il virus, senza gli effetti collaterali molto pesanti che avevano quelle precedenti. Finalmente mi lasciavo alle spalle un calvario di sofferenze, che mi privava della gioia di vivere, e mi ha impedito per anni di fare il padre come avrei voluto. Oggi godo pienamente dell’affetto e della stima dei miei figli (ormai più che ventenni) che hanno capito tutte le mie sofferenze e la mia tenacia nell’affrontarle e uscirne alla fine vittorioso! ».
Come Ivan sono 300 mila i malati di epatite C in Italia, su un totale di un milione di persone infette. Nella maggior parte dei casi la malattia non dà sintomi, per lo meno agli stadi iniziali. Da considerare che l’epatite C, se non diagnosticata, può portare a seri danni al fegato, come cirrosi, ma anche tumore epatico. Purtroppo la malattia è ancora oggi poco conosciuta: due italiani su 3 ammettono una scarsa e inadeguata conoscenza dell’epatite C. E solo due italiani su 10 riconoscono i comportamenti essenziali per evitare il rischio di contagio, come l’utilizzo di aghi sterili, la non condivisione di oggetti per l’igiene personale, che potrebbero comportare contatti con sangue infetto. Solo il 13% considera importante prestare attenzione ai centri dove fare piercing e tatuaggi. Quasi il 60% degli italiani considera a rischio solo determinate categorie di persone che hanno comportamenti promiscui o chi si sottopone alle trasfusioni di sangue, benché dal 1990 esistano controlli rigorosi in tutti gli ospedali.
Sono i dati emersi da un’indagine realizzata da Doxa Pharma, per conto di AbbVie, presentata i giorni scorsi al Ministero della Salute, dove è stata lanciata la Campagna nazionale d’informazione “Una malattia con la C”, promossa da AbbVie, col patrocinio dell’Associazione Italiana per lo Studio del Fegato (AISF), della Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali (SIMIT) e da EpaC Associazione Onlus.
Da oggi è on-line il sito: www.unamalattiaconlac.it, dove si possono ricavare informazioni sulla malattia e chiedere consigli direttamente ai medici specialisti dell’AISF e della SIMIT che rispondono on-line.
A giugno sarà anche disponibile un numero verde per la consulenza con gli specialisti e andranno in onda spot televisivi che avranno come claim “Epatite C: Conoscila, Previenila, Affrontala”.
«La Campagna vuole rispondere alla scarsa conoscenza di questa malattia, soprattutto da parte di coloro che hanno un contatto diretto con le persone affette e potrebbero essere più esposti al virus», commenta il professor Massimo Andreoni, presidente SIMIT. «Ci rivolgiamo a loro in particolare, affinché prendano coscienza dei rischi reali e non si lascino travolgere da falsi pregiudizi, rischiando di fuggire da situazioni che sono assolutamente controllabili. Dalla nostra esperienza clinica, abbiamo visto che purtroppo molte coppie si sfasciano e in tanti casi la convivenza diventa intollerabile a causa di paure infondate di contrarre il virus. Bastano semplici accorgimenti per scongiurare il contagio: evitare di usare oggetti per l’igiene personale, quali forbici, rasoi, spazzolini, che potrebbero contenere particelle di sangue infetto; avere rapporti protetti, soprattutto nei periodi vicini al ciclo mestruale della donna e in presenza di lesioni ai genitali negli uomini. Per il resto, non c’è pericolo, soprattutto quando il paziente è in terapia. Se un tempo i farmaci utilizzati (interferone e ribavirina) richiedevano anche tanti mesi di trattamento e comportavano non pochi effetti collaterali, le nuove categorie di farmaci (inibitori delle proteasi e polimerasi virali) consentono di ridurre in tempi brevi la carica virale, con compresse semplici da assumere e molto ben tollerate, che nel giro di 12-24 settimane sono in grado di eradicare il virus. E in questi casi otteniamo una vera guarigione dalla malattia. Purtroppo però questi farmaci, di cui due sono già stati autorizzati all’uso e per altri si aspetta a breve l’approvazione da parte dell’Aifa, attualmente possono essere somministrati solo quando la malattia è in fase avanzata. Non poter somministrare queste terapie agli stadi iniziali, comporta un danno sia per il singolo malato, che andrà incontro a una progressione della malattia, sia per la comunità, perché non diminuiranno i soggetti infetti in grado di trasmettere l’infezione».
di Paola Trombetta
L’IMPORTANZA DEL TEST, SOPRATTUTTO PRIMA DELLA GRAVIDANZA
Basta un semplice esame del sangue per individuare il virus dell’epatite C. Un esame fondamentale soprattutto prima di una gravidanza. «Oggi purtroppo il test viene effettuato quando la donna è già in gravidanza, mentre sarebbe più utile qualche mese prima, in modo da poter somministrare precocemente la terapia che in gravidanza non può essere utilizzata», fa notare il professor Massimo Andreoni. «Il rischio di una mamma sieropositiva non è tanto di trasmettere l’infezione al feto, un’eventualità molto remota, ma di aggravare la sua malattia nei mesi di gestazione, di dover ricorrere al parto cesareo e non poter poi allattare il piccolo. Per questo auspichiamo che il test venga consigliato alle donne che stanno programmando una gravidanza». (P.T.)