Per la donna il “prendersi cura” è sempre stata una vocazione. Sorta nell’antichità, questa dedizione femminile al prossimo si è evoluta e mantenuta nel tempo. Missione non sempre apprezzata e che ha esposto talvolta le donne a pungenti critiche. Lo racconta il libro Medichesse. La vocazione femminile alla cura, edito da Aboca, del quale l’autrice, Erika Maderna, ci ha parlato in esclusiva.
Medichesse: perché questo titolo e cosa significa?
«E’ un termine quasi scomparso dalla lingua italiana, utilizzato di rado e con una valenza, nella maggior parte dei casi, spregiativa o ironica. Tanto che spesso si è apostrofata come “medichessa” la donna a cui si attribuiva un ruolo di maga o di strega. Lontano, cioè, da tutto ciò che era competenza e vera e propria medicina. “Medichessa” è solo uno dei tanti termini usati nel passato per definire la curatrice; donne dedite alla cura sono state anche le pizie, le sacerdotesse di Apollo che praticavano nella città greca di Delfi, o le sciamane. Così come, a Roma, le vestali, e con il passaggio al cristianesimo le badesse, quindi le donne di chiesa e le sante. O ancora, con accezione negativa, si qualificavano medichesse le streghe e le erbarie, le raccoglitrici di erbe, sottolineando come la curatrice, nel tempo, abbia incarnato molteplici sfumature, positive e negative, così come molteplici sono le sfaccettature della cura. Mi è piaciuto intitolare il libro Medichesse per il valore evocativo del termine, ma soprattutto per sottolineare come nel mondo femminile la cura abbia sempre assunto un valore vocazionale».
Come si è evoluto il ruolo della medichessa nella storia e quali sono le donne che lo hanno incarnato?
«La professione della medicina al femminile risale a tempi molto antichi ed è una anomalia storica. Per le donne, infatti, è sempre stato molto difficile affermarsi socialmente, con l’unica eccezione di coloro che si sono dedicate alla cura, già presenti nelle prime forme di società organizzata. Ogni comunità aveva, al proprio interno, medichesse che si occupavano principalmente della salute femminile, pur rivolgendo la loro assistenza anche a uomini, bambini e vecchi. Sono moltissime le donne che si sono dedicate a questa professione: tuttavia a noi sono giunti il nome, la storia e le gesta di pochissime di loro. All’incirca tre o quattro, almeno nell’arco cronologico della mia ricerca, che va dagli albori di questa scienza fino alle soglie del Rinascimento. Si tratta di coloro che hanno lasciato dei testi scritti, tramandando così il loro nome. La prima è la medichessa Metrodora, una scrittrice e ostetrica bizantina che nel V-VI secolo d.C. ha scritto il primo trattato di medicina e ostetricia al femminile: un personaggio imprescindibile per la storia di questa professione, tanto più importante per il fatto che i trattati di medicina, che sono seguiti al suo, hanno mantenuto caratteristiche e impronta simili a questa antica versione. Con Metrodora, quindi, già comincia a formarsi il nucleo della letteratura medica al femminile che poi si procrastinerà nelle figure di Trotula de Ruggero e di Santa Ildegarda di Bingen. Queste sono le tre figure fondamentali cui appellarsi per comprendere il percorso e l’evoluzione di questa scienza, sebbene nel libro si citino anche donne che nel primo cristianesimo si sono occupate di assistenza, quali Santa Fabiola o Santa Redegonda, che hanno incarnato una concezione di cura universale, estesa cioè al mondo».
Perché affidare proprio alla donna il tesoro delle erbe medicinali e della cura?
«Occorre pensare al ruolo della donna all’interno della comunità. Fin dai tempi più antichi, essa è stata depositaria di tutte le necessità familiari e della comunità, in un modo quasi “claustrale”, per cui non a caso proprio nei monasteri del Medioevo si svilupperà la medicina al femminile. La donna, infatti, restava “dentro” la comunità accudendo altre donne, bambini, anziani e malati, mentre l’uomo usciva, si allontanava per assolvere ai doveri della caccia o della guerra. Alle donne spettava dunque il “prendersi cura” nella più ampia accezione, comprendendo anche l’aspetto dell’alimentazione. È da questo momento che imparano a discernere nella natura ciò che è buono da ciò che non è salutare, le erbe medicinali da quelle velenose, e a gestire tutto ciò che riguarda la raccolta, la conservazione e la trasformazione della materia prima e la somministrazione delle erbe o delle sostanze. Tutti saperi che, fin dall’antichità, si sono quindi strettamente legati ai bisogni della famiglia».
Questo sapere legato alla natura, può essere traslato nell’erboristeria moderna?
«Sì, è esatto. I saperi femminili legati alla botanica rappresentano un filo conduttore che nei secoli non si è mai spezzato. Il primo ad affermare che la donna dovesse dedicarsi con profitto e soddisfazione alla botanica e a tutto ciò che ruotava attorno a piante, fiori ed erbe fu Plinio il Vecchio. La sua convinzione è stata poi ripresa e sostenuta fin nel Settecento da Rousseau, quindi in un’epoca oltre il limite cronologico della mia ricerca. Quello legato alla botanica, e più modernamente all’erboristeria, è un sapere molto concreto che implica anche la capacità di toccare e trasformare con le mani la materia, contribuendo in un certo senso anche alla cattiva fama delle medichesse, sostenuta soprattutto dal punto di vista maschile,. Questo perché, come detto, le donne sapevano manipolare gli elementi, per i fini della salute ma anche del maleficio. E da qui prende forma il legame sottile che unisce la medichessa e la strega».
Che cosa porta ancora in sé dell’antica medichessa la donna dei tempi moderni?
«Il ruolo vocazionale verso la cura della famiglia, ma anche del mondo in senso più ampio. Con le stesse funzioni del passato: cioè cura fisica, spirituale e nutrizionale – ciò che un tempo la donna raccoglieva e metteva nel cesto, oggi lo racchiude nel carello della spesa! – e stesso spirito di attenzione e assistenza verso gli altri, ai quali si dedica senza paura, con una capacità innata di portare sollievo fisico e psicologico, di nutrire, confortare, accompagnare nella morte».
Quanto si discosta l’immagine della donna care-giver da quella di medichessa?
«Sono due dimensioni quasi intercambiabili. Infatti la pratica della medicina femminile si è spesso sovrapposta alla cura infermieristica, come testimoniano tante fonti letterarie riferite in modo particolare alle biografie delle sante curatrici del primo cristianesimo. Badesse e sante che raccoglievano i bisognosi dalla strada, prendendosi cura della loro persona integralmente; erano cioè “care giver” nel senso più completo del termine. Questa è la dimensione che ha differenziato la medicina femminile da quella maschile, specie nell’epoca più antica. La medicina degli uomini si identificava infatti con il sapere delle accademie e dei libri, formato sui canoni dei grandi padri della medicina, mentre le donne praticavano molto spesso in modo empirico, semplicemente per avere osservato o toccato l’ammalato. L’esempio più tipico è quello della levatrice: le bambine osservavano le nonne e le mamme mentre assistevano ai parti, diventando poi a loro volta capaci di farlo. Nei tempi moderni le donne medico, come è giusto, si sono conformate alle modalità maschili e razionali della medicina scientifica, ma non hanno perso il loro spirito vocazionale. Che offre a questa scienza una dimensione più umana».
di Francesca Morelli