DONNE PER LA VITA, NONOSTANTE LA GUERRA

La guerra significa sempre morte, sangue, rovina; la donna invece è stata creata per dare la vita. E proprio per difendere la vita noi abbiamo accettato di andare in guerra. Abbiamo amato i nostri apparecchi come, in seguito, abbiamo amato i nostri figli…”. Irina Maksimova, sergente meccanico del 586° reggimento cacciabombardieri, è una delle tante voci che arrivano da lontano (eppure le sentiamo così straordinariamente vicine) di donne sconosciute, persone qualunque, che hanno vissuto la seconda guerra mondiale sul fronte di guerra. Da queste testimonianze è nato il libro La guerra non ha volto di donna, scritto da Svetlana Alexievich appena insignita dall’Accademia di Svezia del premio Nobel per la letteratura, in arrivo il prossimo novembre nelle librerie italiane per le edizioni Bompiani (portato a termine nel 1983, ma pubblicato due anni dopo, è stato completamente riscritto dall’autrice per questa nuova edizione, reintegrando le ampie parti di testo su cui si era abbattuta la censura e aggiungendo nuovi materiali).
Quattordicesima donna a vincere il Premio Nobel per la letteratura (l’ultima prima di lei era stata Alice Munro nel 2013), Svetlana Alexievich, nata nel 1948 nella città di Ivano-Frankivs’k (oggi in Ucraina), è una giornalista investigativa e scrittrice bielorussa.
“Durante la Seconda Guerra mondiale, più di un milione di donne hanno combattuto nell’Armata Rossa, ma i loro destini non sono mai stati raccontati… Erano cecchini, guidavano camion o lavoravano negli ospedali da campo. Le loro non sono storie di guerra, né di combattimento, ma di uomini e donne in guerra. Cosa è successo loro? Come la guerra le ha cambiate? Di cosa avevano paura? Cosa ha significato per loro imparare a uccidere?”, scrive il Premio Nobel Svetlana Alexievich. Con i suoi libri entra nel cuore delle persone, più che degli avvenimenti, attraverso le voci e i detta­gli della vita quotidiana e del vivere. Una “ricostruzione non dei fatti, ma dei sentimenti”. Così, nel libro forse più conosciuto e intenso, Preghiera per Cernobyl, pubblicato nel 2004 dalle Edizioni E/O e di cui arriva adesso una nuova edizione, ha dato voce a bambini, soldati, contadini, intellettuali, credenti e atei toccati dal disastro nucleare. In Ragazzi di zinco (1992, in Italia con E/O dal 2003) parla dei giovani soldati (ma anche delle loro famiglie), inviati in missione in Afghanistan all’inizio degli anni Ottanta, a seguito dell’intervento militare sovietico (i “ragazzi di zinco” del titolo sono i migliaia di giovani soldati sovietici ritornati dal fronte in casse di zinco e sepolti di nascosto). “Ho cercato – ha spiegato la Alexievich – di comprendere la differenza tra morte e uccisione e dove si trovi la frontiera tra l’umano e l’inumano. Come l’uomo rimanga solo, a tu per tu con la folle idea di poter uccidere un altro uomo. Addirittura di averne il dovere… Mi sono trovata di fronte l’infinita molteplicità di verità e destini. Del loro mistero. Ho cominciato a riflettere su questioni della cui esistenza neppure sospettavo. Ad esempio, come mai non ci stupiamo di fronte al male? Sembra quasi che ce ne manchi la capacità”.
Un messaggio forte che ci invita a interrogarci sui tanti fronti di guerra nel mondo. Sulle violenze terribili, le devastazioni del corpo e dell’anima, il lutto infinito, il dolore inutile, lo strazio che sempre ogni guerra porta con sé. In una guerra vista sempre da una prospettiva maschile. Non se ne parla quanto si dovrebbe. Violenze e sopraffazioni di ogni genere colpiscono sempre la parte più esposta o debole di una popolazione: si pensi ai bambini, agli anziani, alle famiglie. Le donne, dimenticate, abusate, stuprate, arrestate, per ridurle al silenzio, intimorirle. Sotto i loro occhi figli e mariti sono stati torturati o uccisi. Donne che riescono a tenere aperto, anche nei luoghi del dolore, della paura, dello spargimento di sangue, il desiderio insopprimibile di dire sì alla vita. Perché è l’unica prospettiva che guarda alla pace. Donne che fanno continuare il mondo, nonostante la guerra.

di Cristina Tirinzoni

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