E’ solo nella ricerca farmacologica che le donne superano numericamente gli uomini, conquistando il 53% di “quote rosa”. Dati recenti dell’Istituto Ricerche sulla Popolazione e le Politiche sociali del CNR, presentati all’ultimo evento “di genere” di Expo: “L’eccellenza nella ricerca sulla salute della donna”, organizzato dall’Osservatorio nazionale sulla salute della donna (Onda), attestano infatti che la presenza femminile nella ricerca, soprattutto in posizioni di rilievo e con incarichi decisionali, è ancora limitata. Se all’inizio della professione si registra una sostanziale parità tra i due sessi, avanzando nella carriera, l’ago della bilancia si sposta a vantaggio dei ricercatori maschi che salgono al 76%, contro il 24% delle donne. Per non parlare delle posizioni apicali dove le donne che rivestono ruoli come dirigenti di Istituti o Dipartimenti sono meno del 17%. Per questo, in occasione delle Giornate della Ricerca promosse da AIRC (il programma è riportato nelle News), abbiamo voluto intervistare alcune ricercatrici che hanno “sfondato” nella ricerca e che a questo impegno hanno dedicato la loro vita, senza comunque perdere di vista il proprio “essere donna”.
Adriana Albini: la prevenzione viene dalla dieta.
Veneziana di nascita, ma cittadina del mondo, ha studiato e lavorato a Genova, Monaco di Baviera, negli Stati Uniti, per poi ritornare in Italia a Genova, Reggio Emilia e Milano. Con più di 300 articoli pubblicati, è tra le sette scienziate italiane più citate nel mondo e tra le prime tre nella ricerca sul cancro. Oggi è responsabile del Laboratorio di Biologia Vascolare e Angiogenesi dell’IRCCS MultiMedica di Sesto San Giovanni e Milano. La ricerca biomedica è stata la sua grande passione fin da bambina. E lo studio dei meccanismi che regolano i tumori è la sua grande scommessa in età adulta. E’ sua la scoperta del Test per le “metastasi in provetta”, che consente di individuare la capacità invasiva di cellule maligne, utilizzando una matrice proteica naturale (matrigel). Oggi sta lavorando, con il contributo di AIRC, a un progetto sulla Nutraceutica, ovvero su come gli alimenti possono prevenire, se non addirittura “curare” i tumori.
«La scommessa della ricerca sui tumori è quella di individuare precocemente i meccanismi che fanno alterare le cellule, per poter studiare molecole in grado di bloccarne la replicazione, in fase iniziale», conferma Adriana Albini. «Una strada che stiamo percorrendo riguarda l’uso di alcun principi attivi contenuti negli alimenti. Mi riferisco ad esempio ai flavonoidi nella frutta e verdura, ai terpeni presenti nella buccia d’arancio, ai polifenoli nelle olive. Analizzando in laboratorio le reazioni che questi derivati dagli alimenti hanno a contatto con le cellule del tumore, si è visto che alcuni possono rallentare la replicazione e inibire l’invasività. Sono inoltre anti-angiogenici, ovvero bloccano il nutrimento del tumore, e combattono l’infiammazione pro-tumorale».
Paola Allavena: cancro e infiammazione, relazione pericolosa
E’ ormai assodato che esiste una relazione tra i tumori e l’infiammazione. E che il rischio di sviluppare un tumore è più elevato se esistono condizioni infiammatorie croniche. Non a caso molti studi confermano che alcuni anti-infiammatori non steroidei (FANS), come l’aspirina, possono ridurre la mortalità per tumore, in particolare al colon. La conferma viene da Paola Allavena, che da una vita studia la relazione tra tumori e infiammazione e dirige da dieci anni il Laboratorio di Immunologia cellulare dell’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano (Milano). Determinante nel suo curriculum è stata l’esperienza al National Cancer Institute di Bethesda e all’Istituto Mario Negri di Milano. «Proprio con il gruppo di Maurizio D’Incalci all’Istituto Mario Negri abbiamo scoperto gli effetti di un composto anti-tumorale, trabectedin, su un particolare gruppo di cellule infiammatorie, i macrofagi, presenti nel sistema immunitario che, in un certo senso, “difendono” e fanno proliferare le cellule tumorali. Il farmaco trabectedin viene utilizzato in alcuni tumori, come i sarcomi a livello muscolare e i liposarcomi, e nel tumore all’ovaio in associazione alla chemioterapia tradizionale. La scoperta che questo composto colpisce non solo le cellule tumorali, ma anche i macrofagi infiammatori che “difendono” le cellule neoplastiche, ha aperto la strada al suo utilizzo in diversi tipi di tumori. Ma non solo. Per il futuro sono allo studio altri composti che mirano a colpire i macrofagi infiammatori in associazione a farmaci mirati contro le cellule tumorali, potenziandone così l’azione. Il nostro gruppo sta lavorando, grazie a un finanziamento AIRC, proprio su queste terapie, che potrebbero avere un effetto anche sul tumore all’ovaio. E’ una vera soddisfazione, come ricercatrice, vedere come una molecola studiata in laboratorio, possa diventare un farmaco e magari salvare molte vite!».
Licia Rivoltini: la cura è dentro di noi
«Quando, fresca di laurea in Medicina, cominciai a lavorare come borsista nella Divisione di Immunologia dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano, diretta da Giorgio Parmiani, non potevo certo immaginare di dover aspettare trent’anni per vedere concreti risultati». Così Licia Rivoltini ricorda i suoi primi anni all’Istituto Nazionale dei Tumori dove, dal 2007, dirige la Struttura di Immunoterapia. Ha scritto più di 150 pubblicazioni su riviste scientifiche e coordinato diversi progetti di ricerca finanziati dal Ministero della Salute e da AIRC. Preziosa l’esperienza lavorativa con il dottor Steve Rosenberg, del National Cancer Institute di Bethesda, uno dei principali ricercatori mondiali nell’ambito dell’immunoterapia oncologica. «A mano a mano che approfondivo la conoscenza di quanto sia complessa la convivenza del tumore con il nostro organismo e quali incredibili strategie le cellule malate siano in grado di usare per sopravvivere, mi appariva sempre più chiaro quanto la mia ricerca sarebbe stata difficile. Col supporto di tanti ricercatori che hanno creduto, assieme a me, in quella meravigliosa risorsa che è il nostro sistema immunitario, siamo finalmente arrivati a un punto di svolta nella ricerca sui tumori. Non solo farmaci che colpiscono in modo selettivo le cellule malate, come accade in molti trattamenti oggi utilizzati, ma anche una stimolazione delle nostre difese immunitarie per ostacolare la crescita del tumore. La nostra Unità di ricerca sta conducendo diversi studi clinici di Immunoterapia in pazienti con melanoma, tumore del colon-retto e della prostata. La scommessa? Individuare quei meccanismi specifici del sistema immunitario che possono interagire o addirittura bloccare la crescita delle cellule tumorali. La cura, quindi, potrebbe essere dentro di noi: dobbiamo solo trovare il modo di attivarla!».
Lucia Del Mastro: diventare mamma dopo un tumore
Si è sempre occupata di ricerca clinica, per capire meglio la biologia e il comportamento dei tumori, in particolare quello alla mammella e dei nuovi protocolli di trattamento. Così, non a caso, Lucia Del Mastro è stata nominata Direttore dell’Unità Sviluppo Terapie Innovative del Dipartimento di Oncologia medica dell’IRCCS San Martino – Istituto dei Tumori di Genova, la città dove si è trasferita dopo il matrimonio con l’oncologo Marco Venturini, e dove vive da quasi vent’anni. «In questi anni ho sempre lavorato con mio marito, dedicandoci a studi sul tumore alla mammella, e con lui ho condiviso vittorie e sconfitte», racconta Lucia Del Mastro. «Vita privata e passione per la ricerca si sono sempre intrecciate. Anche la maternità ha avuto riflessi positivi sul mio lavoro di ricercatrice. L’esperienza di diventare madre, avvenuta nel 2000 con la nascita di due gemelli, mi ha spronata a indirizzare i miei sforzi per dare la possibilità anche alle donne che si sono sottoposte a chemioterapia di avere figli. Abbiamo allora avviato un protocollo di ricerca per preservare la fertilità nelle donne che devono sottoporsi a chemio, utilizzando farmaci, come la triptorelina, che mettono a riposo le ovaie. Con il contributo di AIRC è stato condotto uno studio di fase III su 282 giovani donne, di cui metà era sottoposta a chemioterapia da sola e l’altra metà associata a triptorelina. Dopo diversi anni l’associazione dei due farmaci ha funzionato e le pazienti, nonostante la chemio, hanno recuperato la fertilità e hanno avuto figli. La più grande soddisfazione del mio lavoro? Aver tenuto in braccio i bambini delle mie ex-pazienti!».
di Paola Trombetta