«Ogni giorno era sempre peggio. La vista non era più la stessa, i contorni sfumavano: un’ombra sempre più pesante calava tra me e il mondo, le cose, gli affetti, la vita. Più spenta, meno autonoma, solitaria. Situazione a cui si aggiungeva il timore per gli anni che avanzavano, i figli lontani, i nipoti che facevano visita di rado e la preoccupazione per una malattia che non capivo, non sapevo come si sarebbe evoluta. Incerta sul da farsi… fino a quando la rassegnazione ha lasciato il posto al coraggio. Dopo una visita in un centro specializzato, la corretta diagnosi, l’attenzione e le parole “giuste” di un medico, un trattamento innovativo, tutto è cambiato: intorno le cose cominciavano a riacquistare luce e colore. Sono tornata a vedere e ora posso tornare anche a vivere».
La storia di Chiara, affetta da degenerazione maculare, una delle più frequenti malattie che colpiscono e danneggiano la retina nella parte centrale, chiamata macula, utile a leggere, scrivere, fissare negli occhi le persone, potrebbe essere comune a molte donne: al 20-30% nella mezza età, intorno ai 50 anni, fino a punte anche del 50% verso gli 80 anni. La complicità di più fattori, tra cui l’età matura che rappresenta uno tra i principali fattori di rischio, e forse anche la componente ormonale, fanno della donna la “vittima” privilegiata: la degenerazione maculare è una patologia seria, importante, dal forte impatto clinico e sociale, che compromette la qualità della vita, destinando nella maggior parte dei casi alla cecità progressiva.
«La degenerazione maculare – spiega il professor Francesco Bandello, direttore della Clinica Oculistica dell’Ospedale San Raffaele di Milano e Presidente di Euroretina – colpisce l’occhio in un’area essenziale per la vista. Infatti l’acuità visiva, ovvero la quantità di visus misurato in decimi, dipende da quanto vede la macula e la qualità della visione dalle condizioni di salute di quest’ultima». La degenerazione maculare comincia di norma con una visione alterata e distorta delle immagini che evolve gradualmente verso una riduzione dell’acuità visiva centrale o dando luogo alla visione di una “macchia” al centro del campo visivo. Una malattia che si stima in forte aumento, con dati in crescita tra le donne in funzione dell’allungamento della vita media, e non solo per un fattore costituzionale. «La predisposizione genetica – continua Bandello – quella che si eredita dai genitori attraverso il corredo cromosomico, può essere alimentata anche da alcune componenti ambientali o comportamentali nocive per la vista come il fumo, in notevole aumento tra le donne e la cui interazione nello sviluppo della malattia è stata dimostrata da tanti studi epidemiologici, l’esposizione alle radiazioni ultraviolette del sole, derivanti da lavori svolti per lo più all’aria aperta (contadini o pescatori ad esempio sono più a rischio di maculopatia), all’uso-abuso di lampade fino a quelle professionali, ma anche una dieta sbagliata». Un’alimentazione troppo ricca di grassi animali pare infatti aumentare il rischio di malattia, mentre l’olio d’oliva o un adeguato apporto di omega-3 contenuto soprattutto nel pesce, così come il consumo di verdura a foglia larga verde (spinaci, coste, erbette), sembrano proteggere dalla maculopatia. Un’azione-barriera dietetica che, laddove necessario, potrebbe anche essere potenziata dall’assunzione di integratori i quali sembrerebbero efficaci nell’abbassare le probabilità di sviluppo di malattia nel secondo occhio.
Non tutte le degenerazioni maculari sono uguali, né esigono i medesimi trattamenti, sebbene la migliore efficacia terapeutica si ottenga comunque da diagnosi il più possibile tempestive. «Esistono – precisa il professore – due forme di degenerazione maculare: una secca e una umida. In quella secca, la retina va incontro a una graduale atrofizzazione del tessuto che subisce un processo di usura del tutto simile a quello di un maglione che si logora a poco a poco ai gomiti, mentre la forma umida è caratterizzata da neo-vascolarizzazione. Ovvero un processo nel quale un vaso, che ha sede in un tessuto sottostante la retina, riesce a rompere una membrana impermeabile che separa questi due elementi (retina e tessuto), entra nella retina stessa, producendo danni tanto più importanti a seconda del grado di neo-vascolarizzazione».
Pochi anni, una decina, possono cambiare la storia di una patologia: così anche i progressi diagnostici e terapeutici della degenerazione maculare sono stati sensibili e hanno fatto la differenza tra l’ammalarsi oggi o nel 2000. «La recente introduzione, avvenuta all’incirca dieci anni fa – aggiunge il professor Bandello – della Tomografia ottica computerizzata (Oct) consente di disporre di immagini molto raffinate e accurate, assimilabili a una sorta di istologia in vivo della retina, senza tuttavia la necessità di somministrare un colorante (mezzo di contrasto) o dilatare la pupilla». Uno strumento innovativo che è entrato nella clinica quasi in contemporanea con terapie all’avanguardia, che hanno consentito un brusco calo dei casi di cecità. «Per la forma umida che è la più aggressiva e che porta più rapidamente a danni invalidanti, si può ricorrere a diverse opzioni terapeutiche di cui le più innovative sono le iniezioni intravitreali, con somministrazione di anti-VEGT, una classe di molecole che bloccano il fattore di crescita endoteliale vascolare, inibendo lo sviluppo dei vasi sanguigni al di sotto della retina». Unico disagio per il paziente il fatto che le iniezioni devono essere ripetute molto frequentemente, compensato però, alla fine, da esiti terapeutici favorevoli. «Per il futuro – commenta Bandello – le aspettative sono rivolte verso nuove molecole oggi in sperimentazione».
Meno fortunate sono le donne affette dalla degenerazione maculare secca, perché nonostante la forma sia più lenta e graduale e consenta di abituarsi al danno esistente, le opportunità di cura non sono numerose. «Solo adesso si sta iniziando il reclutamento per due studi multicentrici internazionali che prevedono l’utilizzo di nuovi principi attivi per valutarne l’efficacia sul controllo di questa forma».
La prevenzione è possibile, a patto che l’attenzione verso il “rischio maculare degenerativo” cominci fin dalla primissima infanzia, quando sullo sviluppo della malattia gioca solo il corredo genetico e il margine di protezione di altre azioni è più ampio: «La prima prevenzione – aggiunge lo specialista – consiste nel far indossare ai piccoli, occhiali da sole con filtri ultravioletti, specie in estate, e poi effettuare regolari controlli della vista». La prima visita oculistica è consigliata poco dopo la nascita, seguita da un secondo appuntamento prima dell’età scolare, utile a individuare precocemente eventuali problemi sfuggiti all’attenzione o che non si sono manifestati con sintomi apprezzabili. In età adulta non bisogna certo trascurare gli occhi: soprattutto intorno ai 40 anni, età che in genere coincide con la comparsa dei primi sintomi riconducibili alla presbiopia. E poi negli anni d’argento, quando aumenta il rischio di presentare lesioni dovute a problematiche di senescenza tissutale. Ma alla clinica si devono sempre aggiungere, per un efficace programma preventivo, la correzione dello stile di vita e della dieta.
di Francesca Morelli
UN’INDAGINE DI “MEDICINA NARRATIVA” PER UN DISTURBO VISIVO POCO CONOSCIUTO
La difficile qualità di vita che impone la maculopatia degenerativa e la speranza di terapie efficaci che preservino o migliorino la vista, ma anche una scarsa consapevolezza verso questo disturbo visivo: ecco i punti salienti emersi da un’indagine – un progetto di ricerca di medicina narrativa – condotto dalla Fondazione Istud con il contributo incondizionato di Bayer, che ha coinvolto all’incirca 160 pazienti affetti da patologia, di età media 73 anni, e 42 familiari. Un campione rappresentativo di un contesto italiano da cui si evince che quasi il 50% dei malati non conosce il proprio disturbo visivo, la degenerazione maculare, lo sottovaluta o non ammette il problema (29%), mentre coloro che, più responsabilmente, si rivolgono con tempestività a un oculista del territorio nel 29% si scontrano con la difficoltà di accesso alle cure: lunghe liste d’attesa (29%), mancata diagnosi (17%), errata terapia (7%), disservizi (11%). Con una sola conseguenza: un forte impatto sulla qualità della vita tanto da costringere nel 77% dei casi a ridurre o cessare le attività quotidiane, non solo lavorative ma anche le più comuni come leggere (40%), guardare la televisione (16%) o guidare la macchina (26%), fino a non andare più a fare la spesa in autonomia, percependo la casa e la strada come ambienti entrambi ostili per la propria condizione di malattia.
Il dato positivo, emerso dall’indagine, è l’elevata predisposizione alle cure da parte dei pazienti e la forte speranza in esse riversata, percepite positivamente nel 91% dei casi. Speranza che, a detta degli esperti, avrebbe un fondamento: «La patologia – ha concluso la dottoressa Monica Varano, Direttore Scientifico IRCCS Fondazione G.B. Bietti di Roma – ha un forte impatto sulla persona, ma il corretto e tempestivo avvio di trattamenti mirati, in un regime terapeutico adeguato, permettono oggi di conseguire risultati significativi in termini di stabilizzazione e miglioramento della capacità visiva».
(F. M.)