“LE COSE MIGLIORI” PER MIA MAMMA, MALATA DI PARKINSON

«Ho conosciuto mia madre che era già malata di Parkinson. Aveva 39 anni quando la malattia venne diagnosticata, ma già anni prima mostrava rigidità nei movimenti e tremori». Così Valeria Pecora, oggi 34enne di Arbus, un piccolo paese della Sardegna, ricorda l’esordio della malattia della mamma, che il prossimo mese compirà 66 anni, alla quale ha dedicato il libro, “Le cose migliori” (Lettere Animate Edizioni), presentato proprio nel giorno dedicato alle mamme. 

«Ho voluto scrivere questo libro per dare un messaggio di speranza e far capire che i malati di Parkinson hanno il diritto di vivere una vita dignitosa, pur nelle limitazioni e nei disagi che la malattia impone. Vivere con un malato di Parkinson cambia la vita di tutto il nucleo familiare. E’ stato in particolare mio padre a portare il fardello più pesante e farsi carico dell’assistenza a mia mamma. Noi figlie, siamo in tre sorelle, una più grande e una più piccola di me, supportiamo mia mamma, facendole compagnia, portandola fuori con la carrozzina, aiutandola nelle semplici azioni quotidiane che da sola non riesce più a fare. Ci sembra naturale comportarci in questo modo con lei, anche perché noi figlie l’abbiamo sempre vista “malata”, mentre per mio padre è più difficile e spesso si fa prendere dallo sconforto… A parte il disagio quotidiano, ricordo anche tanti momenti di gioia della mamma, pur nel lungo percorso della sua malattia. Come diversi anni fa, quando ancora riusciva a camminare: un giorno l’abbiamo portata sulla spiaggia dove c’era una colonia di bambini in vacanza. Mia madre si era commossa perché si era ricordata di quando lei stessa, insegnante in una scuola materna, aveva portato i suoi bambini sulla spiaggia. E sono proprio questi ricordi, ma anche le piccole azioni quotidiane come riuscire a vestirsi o a mangiare da sola, senza doversi far imboccare, le “cose migliori” per un malato di Parkinson!». 

Di questa malattia non si muore, ma la qualità di vita progressivamente viene compromessa. Nonostante l’utilizzo di farmaci, come la levodopa, che sostituisce la dopamina mancante, e di altre terapie innovative, la malattia ha una progressione lenta, ma inesorabile. Il punto sul Parkinson è stato fatto i giorni scorsi (4-6 maggio) dagli specialisti riuniti a Bari per il secondo Congresso dell’Accademia LIMPE-DISMOV. Nell’occasione abbiamo intervistato la dottoressa Vincenza Fetoni, responsabile dell’Ambulatorio Malattia di Parkinson e Disturbi del movimento dell’Azienda Socio-sanitaria Fatebenefratelli-Ospedale Sacco di Milano, che ha presieduto il simposio dal titolo: “Differenze di genere nella malattia di Parkinson e nei disturbi del movimento”.

La malattia di Parkinson interessa prevalentemente gli uomini, ma pare che nelle donne abbia un maggiore impatto sulla qualità di vita…

«Delle 300mila persone con malattia di Parkinson, gli uomini sono il doppio delle donne. L’esordio femminile è più tardivo, di almeno due anni, rispetto all’uomo e anche i sintomi sono differenti, con prevalenza dei tremori nelle donne e della rigidità dei movimenti negli uomini. Quando la malattia evolve, l’impatto sulla qualità di vita è sicuramente peggiore nella donna. Dall’iniziale sintomatologia tremorigena, si passa alla rigidità e lentezza dei movimenti che incidono molto sulla vita della donna, contemporaneamente madre e lavoratrice. Ma non solo. La malattia compromette anche l’identità stessa della donna e la sua femminilità. Non essere più efficienti come prima, in casa e al lavoro, ma anche vedersi impacciate nei movimenti rende più vulnerabili e predisposte alla depressione. Ad essere compromessa è anche la sfera affettiva e sessuale, e questo genera ulteriore peggioramento dei sintomi depressivi, anche perché difficilmente la donna parla di questi problemi con il medico e chiede un aiuto per affrontarli».

A quale età colpisce la malattia? Nelle forme giovanili potrebbe creare problemi nella programmazione di una gravidanza?

«Nella maggior parte dei casi l’esordio della malattia avviene dopo i 60 anni, quando la donna è già in menopausa. Sembra che gli estrogeni proteggano dall’insorgenza della malattia: agiscono infatti sulle cellule neuronali che producono la dopamina, evitandone la degenerazione. Negli ultimi anni, però, stiamo assistendo a un aumento di incidenza della malattia anche prima dei 40 anni. Queste forme di Parkinson giovanile rappresentano oggi il 10% di tutti i malati. Ci sono pochi dati sulla gravidanza nelle pazienti con malattia di Parkinson ma, da quanto riportato, sono state portate a termine regolarmente, magari con la programmazione di un parto cesareo. Abbiamo invece riscontri di peggioramento della malattia nelle pazienti in età fertile durante il ciclo mestruale».

Quali sono le terapie più indicate? Ci sono differenze “di genere” nelle risposte ai farmaci?

«Il gold-standard delle terapie è la levodopa, usata da più di 30 anni. Si tratta di un farmaco che sostituisce la dopamina, il neurotrasmettitore carente o addirittura assente nei parkinsoniani, deputato al controllo dei movimenti. Esiste poi la categoria dei dopamino-agonisti e degli inibitori delle MAO-B, enzimi che degradano la dopamina. Tra questi, la safinamide, un farmaco di recente commercializzazione. Tutti questi farmaci sono sintomatici e vanno a sostituire la dopamina mancante che, nella malattia di Parkinson non viene più prodotta a causa della progressiva degenerazione dei neuroni deputati alla produzione di questo neurotrasmettitore. Nelle donne, nel corso della malattia, viene descritta una maggiore incidenza di discinesie (movimenti incontrollati, soprattutto agli arti) che sono in relazione con il dosaggio medio di levodopa giornaliero. Nelle donne, infatti, si tende a utilizzare la stessa quantità di farmaco degli uomini, trascurando che la donna ha un peso inferiore e statura più bassa. In alcuni casi, i dopamino-agonisti possono provocare la comparsa di disturbi del controllo degli impulsi, che possono degenerare nelle forme di gioco d’azzardo patologico e ipersessualità negli uomini, shopping compulsivo nelle donne. Per questo motivo le terapie devono essere personalizzate e prescritte da uno specialista: è quindi importante che i pazienti vengano seguiti nei Centri specializzati. In alcuni casi, quando non è più presente una risposta ottimale alla levodopa e la malattia è in una fase complicata, si può ricorrere all’impianto di elettrodi per la stimolazione neuronale profonda (Deep Brian Stimulation). Si è visto che le donne, pur ricorrendo in minor numero a questo intervento, hanno lo stesso beneficio motorio e rispondono meglio degli uomini, con miglioramento della qualità di vita».

Esistono campanelli d’allarme di questa malattia o metodiche strumentali che potrebbero portare a una diagnosi precoce?  

«Purtroppo non si riesce ad avere una diagnosi precoce della malattia perché, quando compaiono i primi sintomi (tremori, lentezza del movimento, rigidità), la degenerazione dei neuroni che producono la dopamina è già intorno al 70%. Esistono però campanelli d’allarme, come i sintomi non-motori, quali depressione, disturbi del sonno, stipsi, disturbi olfattivi e sindrome delle gambe senza riposo, che potrebbero precedere, anche di molti anni, i sintomi motori, ma sono difficili da ricondurre alla malattia. La diagnosi è prevalentemente clinica, sui disturbi conclamati del paziente: tremori continui, anche da fermi, rigidità dei movimenti, discinesie. Esistono anche metodiche strumentali, come la SPECT cerebrale con DAT Scan, che valutano la densità dei neuroni dopaminergici, evidenziando alterazioni nei parkinsonismi. E’ recente la scoperta di alcuni ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma di un test sulla saliva, per la diagnosi precoce di malattia. Si tratta di individuare le variazioni di concentrazione salivare della proteina alfa-sinucleina, la cui carenza è sintomo di degenerazione neuronale. Occorrono però ulteriori studi per confermare questi dati».

Quali sono le cause della progressiva degenerazione dei neuroni, alla base della malattia di Parkinson?

«Le cause precise non si conoscono ancora, ma hanno un ruolo sia fattori genetici, ambientali e tossici. Si pensi all’uso di sostanze chimiche come i pesticidi o le droghe. A volte si osserva la comparsa di tremore e rallentamento del movimento durante il trattamento prolungato con farmaci antidepressivi (paroxetina, fluoxetina, sertralina) e neurolettici (amisulpiride, levosulpiride, aloperidolo). In questi casi i disturbi sono reversibili, sospendendo la terapia. Gli studi sulle cause della malattia sono ancora  in corso e forse riserveranno nuove sorprese».

di Paola Trombetta

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