«Sono passati 23 anni da quando mia figlia, che oggi ne ha 26, ha avuto un’aritmia cardiaca. E mio marito otto anni fa è mancato per arresto cardiaco. Da queste vicende personali mi sono convinta che non potevo rimanere indifferente. E ho deciso di fondare l’Arhythmia Alliance, un’associazione internazionale che si propone di aiutare quanti hanno problemi di aritmie cardiache e i loro familiari, che spesso sono disorientati e non sanno come comportarsi. Le donne in particolare, come mogli e come madri, rivestono un ruolo fondamentale che è quello di assistere i propri congiunti, convincerli ad assumere le terapie e intervenire precocemente nei casi di aritmia. Uno stato di affaticamento della persona potrebbe già essere un campanello d’allarme. La conferma, oltre alla misurazione della pressione arteriosa, potrebbe derivare anche dal battito cardiaco irregolare rilevato dal polso. Intervenire tempestivamente, può salvare una vita!». Così Trudie Lobban che ha fondato otto anni fa a Coventry, nel Regno Unito, “Arhythmia Alliance”, l’Associazione internazionale di pazienti con Fibrillazione Atriale, ha ricordato le finalità dell’Associazione: “Detect, protect and correct”, ovvero “Diagnosticare, proteggere e correggere gli stili di vita”, in occasione del recente “Heart Day” che si è tenuto a Roma per il lancio del nuovo farmaco edoxaban.
Nonostante ne soffrano 6 milioni di europei, un numero destinato a raddoppiare nei prossimi 50 anni, la Fibrillazione atriale (FA) è una malattia spesso sconosciuta. Il 45% degli italiani intervistati, in occasione del sondaggio europeo sui pazienti con FA, condotto dall’Agenzia Opinion Health, per conto di Daiichi Sankyo, ha dichiarato che, prima della diagnosi, non ne aveva mai sentito parlare e, tra quelli che la conoscevano, la metà non sapeva dei sintomi a essa legati. E’ infatti considerata una patologia subdola proprio perché spesso asintomatica, in particolare se la frequenza cardiaca non risulta accelerata, tanto che il 34% dei pazienti non aveva riscontrato alcun sintomo precedente. E il 38 % di essi non è consapevole del legame tra FA e ictus: eppure un ictus su 5 è causato da FA, proporzione che aumenta significativamente con l’età. Il rischio di sviluppare ictus è tra le 3 e le 5 volte superiore in chi soffre di questa patologia. La carenza di informazione si riscontra anche nella richiesta, da parte del 48% degli intervistati, di consigli utili per la gestione quotidiana della patologia: come comportarsi, ad esempio, in merito alla dieta e all’esercizio fisico.
Chi soffre di FA spesso deve ricordarsi di assumere i farmaci più volte al giorno, anche perché la maggior parte dei pazienti sono anziani, con comorbilità che richiedono l’assunzione quotidiana di diverse pillole. Ciò causa un evidente disagio, tanto che la maggior parte degli intervistati (53%) preferirebbe assumerne meno, dimostrando la necessità di semplificare il trattamento.
Per la FA esistono in effetti diverse opzioni di trattamento, rispetto alla terapia standard con il warfarin, un farmaco antiaggregante piastrinico che richiede una particolare attenzione alla posologia, frequenti monitoraggi e numerosi appuntamenti dal medico, oltre all’attenzione alla dieta e all’interazione con altri farmaci. Eppure il sondaggio rivela che, a più della metà dei pazienti intervistati (55%), non è stata presentata alcuna opzione. La conferma di questi dati è che la metà degli intervistati non ha mai modificato la terapia, nonostante sia un’esigenza chiaramente avvertita, a causa della mancanza di efficacia (32%), degli effetti collaterali (30%) e dei frequenti monitoraggi rappresentati dai numerosi appuntamenti dal medico (18%). A confermare i dati del sottoutilizzo dei trattamenti con i nuovi anticoagulanti orali, e a mettere in evidenza la convenienza che un uso appropriato di queste terapie avrebbe sul sistema sanitario, è stato il progetto NEMAWASHI, uno studio osservazionale sulla fibrillazione atriale, che conferma la migliore compliance di questi nuovi anticoagulanti. Unico neo: il maggior costo della nuova terapia, che compensa, però, con le minori spese per visite mediche e ospedalizzazioni.
Che cosa sono in realtà questi nuovi farmaci anticoagulanti?
Edoxaban è il nuovo anticoagulante orale, da assumere una sola volta al giorno, che inibisce in modo specifico, reversibile e diretto il fattore Xa, un importante fattore della cascata della coagulazione che induce la formazione di coaguli di sangue. A giugno 2015 edoxaban ha ricevuto l’autorizzazione dalla Commissione Europea per la prevenzione dell’ictus e dell’embolia in pazienti adulti con fibrillazione atriale non valvolare (FANV), e per il trattamento e la prevenzione delle recidive di trombosi venosa profonda (TVP) ed embolia polmonare (EP). Ad oggi è disponibile in diverse nazioni europee (Germania, Svizzera, UK) e in Corea del Sud, Stati Uniti e Giappone e attende l’autorizzazione regolatoria in molti altri Paesi, mentre in Italia la rimborsabilità è prevista nelle prossime settimane. «Quella con edoxaban è una terapia anticoagulante più sicura rispetto all’attuale standard terapeutico a base di warfarin, l’antagonista della vitamina K, il cui utilizzo è associato a un aumentato rischio di sanguinamenti, che possono anche causare emorragie, soprattutto negli anziani», commenta Walter Ageno, professore associato di Medicina Interna presso il Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale dell’Università degli Studi dell’Insubria di Varese. «Uno studio di recente pubblicato su Lancet Haematology dimostra che edoxaban è una valida alternativa al warfarin per i pazienti che richiedono una terapia a lungo termine per la prevenzione secondaria di tromboembolie venose. Il trattamento prolungato con edoxaban si è dimostrato, infatti, non solo efficace ma più sicuro, perché associato a una riduzione dei sanguinamenti rispetto al warfarin. Più facile da assumere in una sola dose giornaliera, facilita inoltre una maggior aderenza alla terapia e poche interazioni con altri farmaci, rendendo superflui i continui monitoraggi necessari invece nella terepia a base di warfarin». La riduzione del rischio di emorragie, soprattutto nei pazienti anziani è documentata da un altro studio, pubblicato di recente sul Journal of American Heart Association che ha valutato i dati di prevenzione dell’ictus e dell’embolia in più di 21mila pazienti con fibrillazione atriale, tra 65 e 75 anni. Si trattava prevalentemente di pazienti donne che presentavano in misura maggiore caratteristiche di fragilità, quali basso peso corporeo. «Anche nella popolazione con età superiore ai 75 anni, in cui il rischio emorragico è aumentato, edoxaban presenta un miglior profilo di sicurezza rispetto a warfarin», conferma il dottor Andrea Di Lenarda, direttore del Centro Cardiovascolare ASUITS di Trieste e nuovo Presidente ANMCO (Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri). «Questo dato è più evidente se si prendono in considerazione le emorragie intracraniche. Nei pazienti affetti da fibrillazione atriale, dove l’età è associata a un aumento del rischio emorragico, edoxaban rappresenta quindi una valida alternativa».
di Paola Trombetta