Il processo dell’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea è seguita col fiato sospeso da molti stranieri. Tra questi tante donne, visto che si tratta di un paese in cui le differenze di genere sono superate da tempo. Dopo l’ansia provocata dalla lunga notte del referendum e dal risultato – “Leave” – alcune di loro si sono organizzate. E oggi si ritrovano nel blog “Donne che emigrano all’estero”, da cui l’omonimo libro (con le testimonianze di 34 donne italiane trasferitesi in altrettanti paesi), presentato lo scorso 9 giugno a Barcellona, all’Istituto di cultura italiana.
Tre di loro, Luigina, Elena e Flavia che vivono e lavorano nel Regno Unito, ci hanno raccontato l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea nel vissuto quotidiano, tra voglia di normalità e rischio di razzismo e terrorismo. Ascoltiamole.
Come pensate che cambi la vita, l’approccio verso gli altri e verso di voi dopo la “Brexit”?
«Nel futuro immediato – commenta Luigina Ciolfi che vive a Sheffield – non cambia molto. Il clima di tensione c’era già stato durante la campagna elettorale, purtroppo, ed è stato fomentato ancora di più dagli estremisti del “Leave” che hanno puntato tutto sul controllo dell’immigrazione. Già un paio di settimane prima del referendum mi aspettavo la vittoria del “Leave”, anche se poi vedere i risultati nero su bianco è stato uno shock. È una decisione epocale. Fortunatamente, le persone che mi circondano nella vita di tutti i giorni sono tutte pro-Europa e hanno votato “Remain”. I miei conoscenti sono preoccupati tanto quanto lo sono io e si sono premurati di chiedermi se stavo bene e hanno condiviso il mio sconforto. Dal mio punto di vista, il cambiamento più grande di questi giorni è il senso di smarrimento e incertezza generale sulla scia del risultato: David Cameron si è dimesso e si è creato un vuoto di potere. I fautori del “Leave” si stanno già rimangiando le promesse fatte durante la campagna referendaria. Nessuno ancora vuole prendersi la responsabilità di agire effettivamente e iniziare la Brexit vera e propria. Quindi non abbiamo idea di cosa succederà. È una situazione molto insolita in un Paese dove normalmente il sistema politico è molto stabile». E’ docente universitaria Luigina e nonostante si trovi in un contesto culturalmente aperto e stimolante, teme episodi di razzismo: sembra che il risultato abbia incoraggiato gli estremisti (che comunque ci sono sempre stati) a comportarsi in modo particolarmente aggressivo verso gli immigrati (e anche verso cittadini britannici di origine asiatica e afro-caraibica, che sono comunque qui da generazioni). «Mi chiedo anche come reagirei se qualcuno mi dicesse di “tornarmene a casa mia” – dice –. Lavoro qui da 4 anni, pago le tasse e contribuisco all’economia, ma non credo che ragioni del genere possano essere usate per ribattere agli xenofobi. Per fortuna non mi sono ancora trovata in situazioni simili».
Dello stesso avviso anche Elena Fanelli, da Londra: «ci sono già stati diversi episodi di razzismo, soprattutto nel nord dell’Inghilterra. A farne le spese soprattutto i polacchi, da sempre ingiustamente accusati di togliere il lavoro agli inglesi». La paura è quella dell’abuso del sistema di sussidi britannico che fa gola a molti. «Adoro questo paese – dice Elena – i britannici sono un popolo accogliente e tollerante, ma quello che non hanno mai sopportato dell’Europa era dover sottostare a Bruxelles, a costo della propria sovranità. Abbiamo avuto spesso casi – estremi certo – di terroristi e delinquenti che hanno evitato l’espatrio abusando della legge sui diritti umani di Bruxelles. L’altro tema è economico: in questi tempi di crisi, il contributo britannico all’Europa è considerato come uno sperpero di risorse economiche che sarebbero meglio destinate altrove. Poco gradito anche il diktat europeo su cosa si possa produrre, in termini di prodotti agricoli, e in quale quantità. Ciò che ha dimostrato questo voto è che l’Europa ha bisogno di riforme». In Gran Bretagna sono nati i suoi figli e proprio ai giovani va la preoccupazione di Elena: “non a caso – dice – i giovani hanno votato “remain”.
L’errore, come spiega Elena, è quello di pensare che l’Europa possa diventare come gli Stati Uniti: è impossibile. Gli USA dopo lo sterminio della popolazione indigena e la guerra civile hanno sempre avuto un’unica lingua, un’unica moneta, un’unica identità. L’Europa ha una storia completamente diversa: ci sono sempre stati paesi diversi, con diverse lingue, culture, economie e monete. «A mio parere – dice – è impensabile che ci possa essere un sistema che valga per tutti gli appartenenti. Non sto dicendo che non sia possibile avere un’Europa unita. E’ chiaro però che il Parlamento europeo è un’istituzione distaccata dalla realtà, un elefante burocratico, che va sicuramente snellito. Credo che ogni stato, debba riconquistare la propria sovranità, magari con un’unità centrale di coordinamento. E che l’Unione debba essere più economica che politica».
Temono le ripercussioni sull’occupazione le donne emigrate. Per il lavoro femminile si è sempre trattato di un mercato favorevole, come fa osservare Flavia: «questo è un paese dove per fortuna vige l’equiparazione dei “salary”, e dove essere donna non è certo una qualità minore. La donna è una figura totalmente diversa nell’ambito della società inglese rispetto a quella italiana. Le donne inglesi, dopo la rivoluzione industriale, l’avvento delle suffragette, del diritto di voto, del lavoro paritario, hanno insegnato al resto dell’umanitaà femminile come farsi rispettare. Io come professionista della salute poi, non ho nulla di meno di una mia pari inglese».
Secondo Flavia, verranno istituiti i famosi Visa, o permessi di lavoro, estendibili dai due ai tre anni, a discrezione del datore di lavoro, «ma ci vorranno almeno due anni per arrivarci e, secondo me, il panorama che abbiamo davanti cambia di continuo: imprudente dare per assoluto qualcosa non ancora ratificato. Sicuramente, almeno per ciò che sono le direttive post Brexit, ci saranno complicazioni per gli europei che lavorano qui, inteso per tutti, non solo per le donne. La Scozia farà di tutto per rientrare nell’Unione, e la maggior parte degli inglesi che ha scelto il “Leave” lo ha fatto in base all’età avanzata e purtroppo a un’ignoranza dovuta alla poca informazione e alla quantità di programmi trash tv dei quali fa quotidiane scorpacciate. Temo atti di terrorismo prodotto dall’odio che potrebbe scatenarsi tra le varie fazioni che hanno fatto scelte diverse: la stessa Scozia, Liverpool, il Merseyside, Londra, contro buona parte del resto dell’Inghilterra. Ecco, questo sì, non solo mi spaventa, ma mi disgusta profondamente. Io sono emigrata nel Regno Unito, non in una terra di secessionisti».
Ripercussioni anche per i ricercatori universitari, come aggiunge Luigina: «le conseguenze più preoccupanti della Brexit sono proprio quelle sul mio lavoro. Sono un’accademica e l’uscita dall’Europa significherebbe un danno incalcolabile per l’università e la ricerca: il primo motivo sarebbe la perdita dei finanziamenti europei, che sono una delle fonti essenziali per la nostra ricerca; il secondo motivo sarebbe la difficoltà di assumere personale e attirare studenti europei”. Spesso abbiamo bisogno di figure molto specializzate, e avere la possibilità di offrire una posizione a candidati europei è un fattore importantissimo per il successo dei nostri progetti di ricerca. Per questo le università britanniche hanno fatto campagna strenua per il “Remain” e adesso si stanno coalizzando per avere un ruolo nelle negoziazioni post-referendum. Personalmente, spero che vengano raggiunti accordi che ci permetteranno di partecipare alla ricerca Europea, ma se ciò non dovesse succedere allora quasi sicuramente dovrò spostarmi in un altro paese».
di Cristina Bertolini