È il tumore a più alta sopravvivenza: 85,5% delle donne con tumore al seno vive, a cinque anni dall’intervento. Lo confermano i dati più recenti di AIRTUM, il Registro nazionale dei tumori, dell’Istituto Superiore di Sanità. Un traguardo importante, al quale è d’obbligo associare l’impegno e la dedizione di un medico, come Umberto Veronesi, che ha dedicato la sua vita a combattere questo tumore, pensando soprattutto alle donne. Non a caso la tecnica della quadrantectomia e del linfonodo sentinella hanno permesso di eradicare il tumore, senza troppo danneggiare il corpo della donna. Analogamente l’utilizzo della radioterapia intraoperatoria, nei casi di linfonodi negativi, ha ridotto i disagi delle fastidiose sedute, protratte nel tempo. Che molte donne oggi disattendono. Solo l’11,5% delle donne operate di tumore al 1° stadio, con linfonodi negativi, si sottopone alla radioterapia post-operatoria. Lo attesta un’indagine, condotta su 3378 donne in Emilia Romagna, e presentata in occasione del recente Convegno “Innovazione, sostenibilità, accesso ai farmaci: le nuove sfide dell’informazione in oncologia”, promosso dalla Sapienza Università di Roma, con il supporto di Pfizer e Roche.
«Purtroppo non in tutte le Regioni italiane vengono attuati i protocolli diagnostici e terapeutici previsti per il trattamento di questo tumore con terapia radiante preventiva», fa notare il dottor Mattia Altini, direttore sanitario dell’Istituto scientifico romagnolo per lo studio e la cura dei Tumori IRCCS Meldola di Forlì. «A differenza della chemioterapia, la cui adesione entro 60 giorni dall’intervento raggiunge l’84% delle pazienti, la radioterapia è a volte considerata obsoleta e fuori budget dalle stesse strutture ospedaliere, non sempre dotate di apparecchiature idonee o di fondi necessari».
«Eppure la radioterapia, entro sei mesi dall’intervento, riduce del 70% il rischio di recidive locali», fa notare il professor Filippo De Braud, direttore dell’Oncologia medica della Fondazione IRCCS dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. «Radioterapia preventiva e chemioterapia adiuvante, in presenza di linfonodi positivi e metastasi, hanno contribuito a prolungare la sopravvivenza delle donne con tumore al seno che oggi, a cinque anni, supera l’85,5% ed è la più alta di tutti i tumori, seguita dal colon (60,8%) e del retto (58,3%). L’utilizzo di farmaci biologici target, che colpiscono in modo mirato solo le cellule tumorali, e di test molecolari per tipizzare il singolo tumore, renderanno sempre più efficaci le nuove terapie».
Tra quelle più recenti, la classe degli inibitori di Parp, utilizzati per le donne con tumore triplo-negativo. «Si tratta di tumori, per fortuna abbastanza rari (15%) che non sono ormono-sensibili come la maggior parte dei tumori al seno, per i quali funzionano le terapie tradizionali come il tamoxifene e gli inibitori dell’aromatasi», puntualizza il dottor Giuseppe Curigliano, direttore della Divisione di sviluppo di nuovi farmaci e terapie innovative all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano. «E non sono neppure Her2 +, cioè non rispondono al farmaco biologico Herceptin. La stessa chemioterapia tradizionale dà scarsi risultati. Si è visto, al contrario, che utilizzando alcuni chemioterapici, in associazione ai Parp-inibitori, che potenziano gli effetti della chemio riducendo il danno cellulare, si ottiene una buona risposta anche nei tumori con metastasi. In arrivo anche un’altra nuova classe di farmaci, gli inibitori di CDK 4-6, tra cui palbociclib, ribociclib e amebaciclib, per tumori al seno ormono-sensibili con metastasi. Purtroppo questi nuovi farmaci avranno certamente costi elevati: sarà lasciata alle singole Regioni la decisione di somministrarli a quelle pazienti che dovranno avere caratteristiche particolari di malattia. La vera sfida per il futuro sarà l’accesso delle pazienti a queste terapie mirate, ma ad alto costo. Oggi alcune donne possono usufruire di queste terapie, partecipando alla sperimentazione clinica».
Un’ulteriore scommessa per debellare il tumore è relativa alla possibilità di effettuare test preventivi, come il BRCA 1 o 2, per individuare le pazienti a rischio. «Oggi questi test sono previsti solo nei casi di familiarità (figlie, sorelle) di donne che hanno avuto tumori al seno e all’ovaio positivi alle mutazioni BRCA 1 e 2», puntualizza De Braud. «Si è visto inoltre che i tumori all’ovaio con mutazioni BRCA 1 e 2 rispondono bene alle nuove terapie con Parp-inibitori in aggiunta alla chemioterapia tradizionale. E questa è una notizia incoraggiante per le donne che hanno questo tumore, uno dei più aggressivi e ancora ad alto rischio di mortalità».
di Paola Trombetta