Una donna su due non riconosce le patologie cardiovascolari come una seria minaccia alla propria salute, considerandole un problema “da uomini”, e tende a trascurare fattori di rischio e sintomi. Lo conferma un recente sondaggio condotto dall’American Heart Association che attesta come solo il 56% delle donne considera la malattia cardiovascolare la principale causa di mortalità. Eppure ogni anno nel mondo 8,6 milioni di donne muoiono per eventi cardiovascolari e 3 milioni per ictus. I dati presentati al recente Congresso della Società Italiana di Cardiologia (SIC) a Roma confermano che il 43% della mortalità nelle donne, dopo la menopausa, è legata a problemi cardiovascolari e ictus, contro il 35% degli uomini. Dopo i 60 anni, infatti, quando cala la protezione degli estrogeni e i fattori di rischio cardiovascolare tendono ad aumentare, il 58% delle donne italiane sono ipertese; il 51% ha colesterolo alto; il 67% sono sovrappeso o obese; il 12% ha il diabete; il 18% fuma in media 12 sigarette al giorno; il 41% ha uno stile di vita sedentario, tutti fattori di rischio per malattia cardiovascolare.
Come intervenire allora per proteggere il cuore delle donne?
«Sicuramente riducendo i fattori di rischio soprattutto in menopausa», conferma la dottoressa Carla Sala del reparto di Cardiologia del Policlinico/Università degli Studi di Milano. «Eliminare grassi saturi e ridurre il sale nella dieta sono i primi semplici accorgimenti. E poi ridurre il peso corporeo ed eliminare il fumo. E nei casi di colesterolo e pressione mal controllata, occorre utilizzare terapie adeguate e personalizzate. Per la pressione, in particolare, ci sono oggi nuove combinazioni di farmaci che associano sartani o ace-inibitori con diuretici. Nei casi di mal controllo pressorio con questi principi attivi, si può associare un antagonista dell’aldosterone (canrenone): evita la ritenzione di sodio che l’accumulo di aldosterone potrebbe provocare. Nelle donne questa molecola viene addirittura consigliata nei casi di edema idiopatico».
I benefici di questa terapia sono stati ampiamente dimostrati in un recente studio clinico Escape, condotto su 175 pazienti, presentato al Congresso della Società Italiana di Cardiologia e di recente pubblicato sulla rivista “Cardiovascular Therapeutics”. «Questa terapia ha ridotto in modo significativo la pressione arteriosa, mantenendola costante nel tempo, e ha esercitato un effetto di protezione nei confronti dei danni che l’aldosterone potrebbe provocare, soprattutto sulla rigidità dei vasi sanguigni, l’ispessimento del cuore e disturbi renali», ha spiegato il professor Vincenzo Gaudio, coordinatore dello studio Escape. «Si è visto inoltre che, a dosaggi elevati (400 mg), questo farmaco risponde bene anche nei pazienti con scompenso cardiaco, una patologia che sembra in aumento nelle donne».
di Paola Trombetta
Come riconoscere e trattare lo scompenso cardiaco
Lo scompenso cardiaco colpisce sempre più il cuore delle donne, che purtroppo prestano poca attenzione ai sintomi e arrivano tardi in ospedale, talvolta con danni irreversibili. «I sintomi più comuni sono la comparsa di edema ai piedi e alle gambe, un profondo senso di stanchezza e mancanza di energia, respirazione affaticata per sforzi importanti, fino a comparire anche a riposo», spiega la dottoressa Maria Frigerio, direttore della Cardiologia 2 del De Gasperis Cardio-Center dell’Ospedale Niguarda di Milano. «A questi sintomi si aggiungono il fiato corto (dispnea) che si attenua in posizione seduta, addome gonfio, perdita di appetito, deterioramento della memoria e senso di confusione per la scarsa ossigenazione al cervello. Nelle forme più gravi può comparire edema polmonare, una grave fame d’aria con la comparsa di espettorato schiumoso, spesso dall’esito letale». Oggi sono circa 1 milione gli italiani con scompenso, soprattutto over 65, ma si stima che entro i prossimi 10 anni il numero possa crescere fino a 2 milioni di persone. «Oltre all’età avanzata – continua Frigerio – fra le condizioni predisponenti vi sono le malattie cardiache e delle coronarie, alcune aritmie, l’ipertensione arteriosa, ma anche diverse malattie infiammatorie o autoimmuni, la familiarità, alcuni farmaci oncologici (antracicline, trastuzumab, cetuximab, in uso ad esempio nel trattamento dei tumori del seno), alcuni antidepressivi, antiaritmici, anti-infiammatori non steroidei, anestetici». L’accurata diagnosi da parte dello specialista, il ruolo attivo del paziente nel riconoscere i sintomi e l’avvio precoce di trattamenti appropriati, sebbene non guariscono la malattia, la possono tenere sotto controllo. E, in questa direzione, sono in arrivo nuovi farmaci. «Per molto tempo – precisa Claudio Rapezzi, professore di Cardiologia all’Alma Mater, Università di Bologna – si è trattato lo scompenso con una terapia combinata di diuretici, betabloccanti, ace-inibitori, antagonisti dell’angiotensina. Oggi l’innovazione terapeutica è rappresentata da un farmaco che ha dentro di sé due molecole, ovvero il valsartan, un antagonista dell’angiotensina, e il sacubitril che degrada alcuni peptidi responsabili della malattia. Il farmaco, di cui è prevista la rimborsabilità entro il primo trimestre del 2017, è stato oggetto di un grande studio Paradigm, condotto su migliaia di pazienti, che ne ha sancito la sicurezza e l’efficacia, evidenziando una diminuzione di mortalità 10-20% e prolungamento della sopravvivenza superiore all’anno e mezzo». Con vantaggi gestionali per il paziente, perché questo nuovo farmaco non richiede l’aggiunta di altre terapie.
La cura (oltre a quella farmacologica esiste anche l’opzione chirurgica o l’impianto di dispositivi anti-scompenso), per essere efficace deve andare di pari passo con le modifiche dello stile di vita. «È molto importante smettere di fumare e praticare esercizio fisico regolare, che è parte integrante del trattamento nel paziente scompensato, modulato dal cardiologo in durata e intensità per evitare affanni e limitare lo sforzo. Infatti l’attività fisica moderata aiuta ad “allenare” il cuore, migliorando i sintomi, riducendo lo stress o la depressione, spesso associata allo scompenso, e aumentando la sensazione di energia. Inoltre l’attività fisica è d’aiuto nel controllo del peso corporeo, dei valori di pressione arteriosa, dei livelli di glicemia a favore anche di un aumento del colesterolo “buono” (HDL)». L’alimentazione deve essere povera di sale, di grassi (in particolare di colesterolo) e a basso contenuto calorico. «Gli alimenti da preferire – conclude la professoressa – sono: frutta e verdura fresche, carni magre e pollame, pesce (almeno due volte a settimana), latticini magri e tra i carboidrati quelli integrali». La raccomandazione, per proteggere il cuore scompensato, è di cucinare senza sale, dando sapore ai piatti con altre spezie o profumi come ad esempio il limone, le erbe aromatiche e l’aceto, abolendo anche la saliera dalla tavola, l’uso del dado, ricco di sodio, di cibi e pasti preconfezionati tra cui zuppe, snack, prosciutto e insaccati o tonno in scatola. Ricordando che qualsiasi alimento inscatolato o in salamoia va scolato e sciacquato prima del consumo evitando un eccessivo apporto sodio, presente nell’acqua di conservazione.
di Francesca Morelli
Gli Omega-3 fanno bene anche dopo un infarto
Contenuti soprattutto nel pesce, gli Omega-3 non svolgerebbero soltanto un’azione preventiva contro il rischio e le patologie cardiovascolari, bensì anche terapeutica nel post infarto acuto, favorendo cioè un “rimodellamento” del cuore infartuato. Lo dimostrano i risultai di uno studio americano, pubblicato sulla prestigiosa rivista Circulation, OMEGA-RIMODEL, che ha preso in considerazione poco più di 350 pazienti, affetti da un precedente infarto acuto del miocardio. Tutti i pazienti sono stati sottoposti prima e dopo terapia a risonanza magnetica per valutare gli effetti degli Omega-3 sul danni indotti al cuore. «Dopo un infarto miocardico acuto – ha spiegato Massimo Massetti, Direttore dell’UOC di Cardiochirurgia Policlinico A. Gemelli e titolare della Cattedra di Cardiochirurgia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma – si verificano delle alterazioni del muscolo cardiaco, in particolare una necrosi (morte) di parte del tessuto e una cicatrice fibrosa, ma anche la riduzione della contrattilità e delle dimensioni del ventricolo sinistro. Alterazioni che dipendono dal grado di sofferenza ischemica dovuta al minore afflusso di sangue al cuore. Si tratta di cambiamenti morfologici che possono essere corretti chirurgicamente nella fase iniziale, subito dopo l’occlusione coronarica. Ma se non si interviene o lo si fa tardivamente, si favorisce la progressiva dilatazione del ventricolo colpito dall’infarto con peggioramento della performance contrattile». I migliori esiti sull’aumento del volume del ventricolo sinistro e sulla riduzione della fibrosi miocardica si sono registrati in pazienti in terapia Omega-3: benefici tanto più evidenti in funzione della maggiore o minore presenza della sostanza nei globuli rossi. In considerazione di tali premesse al Policlinico Gemelli partirà a gennaio uno studio (OLEVIA) su poco più di 150 pazienti con durata 30 mesi, per valutare il ruolo anti-aritmico degli Omega-3, nella prevenzione della fibrillazione atriale in pazienti sottoposti a chirurgia valvolare cardiaca. I benefici attesi sono di una riduzione delle complicanze post-operatorie e un miglioramento della prognosi.
F.M.
Al Monzino di Milano, un centro per il cuore delle donne
Il Centro Cardiologico Monzino di Milano apre le porte al “Monzino Women”, su modello degli Women’s Heart Center americani. L’obiettivo è convincere le donne a fare prevenzione e ridurre il peso della malattia sul cuore delle donne. «La medicina attuale è stata costruita a “misura d’uomo” nella definizione dei fattori di rischio, negli studi clinici e nella sperimentazione di farmaci, ma trasferire al genere femminile le evidenze e i meccanismi della malattia cardiovascolare propri del genere maschile risulta spesso penalizzante per la salute della donna. Per esempio, la maggior parte dei farmaci usati per la cura delle malattie cardiovascolari sono stati studiati prevalentemente nell’uomo, anche per quanto concerne le dosi impiegate», spiega Elena Tremoli, Direttore Scientifico del Monzino. «È fondamentale che le donne prendano coscienza del loro rischio cardiologico che può essere anche superiore a quello degli uomini. Basta un esempio: le fumatrici hanno un rischio fino a cinque volte superiore rispetto ai maschi di sviluppare danni alle loro arterie e ciò aumenta il rischio di infarto. La stessa coscienza deve essere estesa al mondo sanitario che ruota intorno al mondo femminile, perché intervenga attivamente nella prevenzione quando la donna è sana, e inquadri correttamente la malattia se diventa paziente».
«Il nostro Centro nasce per seguire le donne che non hanno sintomi di malattia» – dichiara Daniela Trabattoni, responsabile di Monzino Women. «Si rivolge principalmente alle over 40 e, indipendentemente dall’età, alle donne che presentino fattori che aumentano il rischio cardiovascolare: familiarità, stili di vita scorretti come fumo e alcol, obesità, diabete o ipertensione in gravidanza, per esempio. Il Centro riunisce le competenze superspecialistiche e le tecnologie innovative già presenti nell’ospedale, e le integra con collaborazioni multidisciplinari. Oltre a cardiologo clinico, ipertensivologo, aritmologo ed emodinamista, interagiranno con noi, dove necessario, ginecologo, diabetologo, lipidologo, nutrizionista e psicologo».
Ma “Monzino Women” è più di un centro clinico e di ricerca. «Il nostro è un progetto di cultura scientifica – precisa Trabattoni – Avvieremo nuove linee di ricerca dedicate ai fattori di rischio specifici della donna e studi clinici che valutino l’efficacia sia di terapie già consolidate per l’uomo, ma meno applicate alla donna, sia di terapie innovative. A tutt’oggi non vi sono studi multicentrici indirizzati esclusivamente alla popolazione femminile e percentualmente il numero di uomini reclutati è sempre superiore a quello delle donne. La scarsa consapevolezza dell’incidenza delle malattie cardiovascolari nelle donne è il peggior nemico della donna stessa».
P. T.