Si chiamava Carolina Picchio, aveva 14 anni e risiedeva a Novara, ma il suo nome già non lo si ricorda più: è stata vittima di atti di (cyber)bullismo e non ha resistito alla vergogna di vedere un suo filmato in rete, lì alla mercé di tutti, scegliendo il suicidio. Un’altra ragazza aveva 12 anni, si sentiva sola e una sera, dopo aver scritto una lettera, si è lanciata nel vuoto, da una finestra, perché a scuola la incitavano a uccidersi: non tollerava più quelle persecuzioni, meglio farla finita, e ha trovato il coraggio per compiere una azione drastica. Non si tratta di casi isolati: tentano un ultimo gesto una vittima di (cyber)bullismo su dieci, secondo una ricerca di Skuola.net e AdoleScienza.it che ha coinvolto 7 mila studenti di 11 scuole superiori di tutta Italia. Dati confermati anche dal rapporto Censis del 2016: a essere vittima di atti di prevaricazione da parte di coetanei o di compagni un poco più grandi, sono quasi il 53% degli studenti dagli 11 ai 17 anni, con una percentuale che sale a più del 55% tra le ragazze e oltre il 53% dei ragazzi delle scuole medie. Il bullismo è sempre esistito, ma sta oggi assumendo un volto nuovo, forse ancora più drammatico e “incancellabile”, a causa dell’avvento della tecnologia digitale.
«Il (cyber)bullismo – spiega Simona Caravita, professore associato di Psicologia dello Sviluppo dell’Università Cattolica di Milano e membro del CRIdee (Centro di Ricerca sulle Dinamiche Evolutive ed Educative), presso il Dipartimento di psicologia – è un fenomeno complesso che fa riferimento sia a una condotta aggressiva della singola persona, che a un comportamento di più individui, il gruppo dei coetanei. Dove ragazzi più deboli per forza fisica, carattere e temperamento sono vittime delle prevaricazioni perpetrate da un bullo, ossia un giovane che mette in atto azioni prepotenti verso un compagno o coetaneo anche per avere una visibilità all’interno del gruppo stesso». Atto prevaricatore, che segna la psiche della vittima, il bullismo si differenzia da altre forme di aggressione per alcune caratteristiche peculiari: l’intenzionalità, ovvero l’attacco volutamente diretto alla vittima; la continuità e ripetitività di azioni nei confronti del più debole – sebbene con il (cyber)bullismo, attuato cioè via internet, basti un solo atto per rendere permanente e visibile la prevaricazione – e uno squilibrio di potere tra la vittima, isolata dal gruppo, e il prepotente che invece acquista consensi e apprezzamento da parte dei compagni.
«Anche nelle più moderne forme di bullismo – aggiunge la psicologa – si possono riconoscere le stesse dinamiche motivazionali, ovvero il desiderio di affermazione all’interno del gruppo, soprattutto in età pre-adolescenziale e nell’adolescenza in cui la stima dei coetanei ha un ruolo preponderante, mentre sono cambiate le modalità con cui il (cyber)bullismo si manifesta. Il bullismo femminile, ad esempio, è passato da una prevalenza di azioni indirette, attraverso la diffusione di voci calunniose o l’isolamento della persona stessa, a forme di prevaricazione sempre più fisica».
La maggiore attenzione al bullismo, con l’istituzione anche della legge “Disciplina degli interventi per la prevaricazione e il contrasto del fenomeno bullismo”, approvata nel maggio scorso, ha permesso oggi di conoscere meglio le dimensioni e manifestazioni del (cyber)bullismo, arrivando anche a definire il profilo dei giovani che lo mettono in atto. «Si tratta di ragazzi – dice Caravita – che valutano positivamente l’uso di azioni violente per ottenere i propri scopi e obiettivi, che attuano questi comportamenti perché sono convinti di riuscire bene in queste condotte. Recenti studi scientifici attestano, infatti, che il bullo mette in atto prepotenze, non a causa di un basso livello di autostima, ma piuttosto come una compensazione a carenze affettive pregresse e a stili educativi problematici presenti all’interno del contesto familiare. A tal punto che il (cyber)bullo non ha sviluppato un’adeguata empatia affettiva, riconosce cioè l’emozione dell’altro, ma è incapace di sentire e condividere le emozioni e il dolore della vittima». Un fenomeno che si aggrava nel cyberbullismo dove il filtro creato dalla tecnologia, che nega il contatto diretto e la possibilità di guardare in faccia la propria vittima e di coglierne l’emozione o gli effetti, aumenta la tendenza del bullo ad autogiustificare la propria azione, alleviandone il senso di colpa e di responsabilità. «Il bullo adotta e mette in atto – continua la psicologa – meccanismi di “disimpegno morale”, matura cioè la capacità di ripensare l’atto compiuto e di assolvere la propria coscienza con pensieri e frasi quali “non è un’azione così grave”, “è uno scherzo”, “la vittima in fondo se l’è voluta”, facendo scivolare la colpa sulla vittima stessa, “sono cose che fanno tutti” diffondendo la responsabilità ad altri o ancora “mi è stato detto di farlo”».
Protagonisti del (cyber)bullismo non sono solo gli oppressori/prepotenti o le vittime, ma anche gli spettatori che supportano il bullismo e non prendendo le difese della vittima, diventando essi stessi cyberbulli. A volte le stesse vittime di azioni prevaricatrici possono diventare cyberbulli. «Una spiegazione di queste dinamiche – dichiara ancora Caravita – può essere riconducibile sia a un cattivo rapporto con gli adulti che hanno seguito il ragazzo nella fase della crescita, dove è mancata soprattutto un’educazione morale, ma anche a una scorretta educazione dei giovani all’uso delle tecnologie. Recenti ricerche hanno infatti dimostrato la diversa percezione del cyberbullismo da parte di adulti e ragazzi, dove questi ultimi fanno fatica a cogliere la portata morale di un’azione commessa attraverso le tecnologie. Non avvertono cioè il danno o la sofferenza che può causare alla vittima il semplice gesto di spingere un bottone o mettere un “like” a qualche cosa che la può screditare agli occhi dei compagni e della società». Il cyberbullismo è diventata un’azione facile, alla portata di tutti, fin dalle scuole elementari. Da qui la necessità di prevenire e arrestare bullismo e cyberbullismo: due fenomeni strettamente connessi per dati numerici e modalità di azione e verso cui occorre attuare strategie sinergiche, che coinvolgono tutti gli attori: i ragazzi, la famiglia e la scuola. «Nel caso della scuola – continua l’esperta – è necessario definire una politica comune d’intervento affinché una prepotenza in classe venga riconosciuta in egual modo da tutti gli insegnanti, e lo stesso vale in famiglia dove una specifica azione deve essere ammessa o non ammessa da entrambi i genitori. Questo significa che scuola e famiglia devono collaborare, mettendo in atto una stessa linea di condotta e dando il medesimo valore all’atto compiuto. Occorre inoltre attuare azioni sulla globalità della classe, coinvolgendo tutti i ragazzi: i prepotenti, le vittime e gli spettatori. Un nostro studio ha dimostrato infatti che gli spettatori sviluppano livelli più elevati di stress, anche semplicemente assistendo all’atto di prevaricazione, con conseguenze importanti per la salute emotiva e psichica». E, proprio a loro, agli spettatori, occorre insegnare a parlare con gli adulti, a stare vicino alla vittima di (cyberbullismo). Ai genitori è importante far capire che essere spettatore espone alle medesime conseguenze di un atto prevaricatore. A cui invece si deve far fronte, agendo ed evitando il silenzio. Come invita a fare anche una campagna TV, promossa dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca, perché “restare indifferenti equivale e essere complici”.
Per supporto e segnalazioni: www.generazioniconnesse.it
di Francesca Morelli
Le paure dei bambini sono “di genere”
“Ma hai paura? Io sì e tu? Io pure”. Potrebbe essere questa una tipica conversazione di due bimbi ansiosi che cercano di confortarsi l’un l’altro. Perché, secondo uno studio della University of Anglia di Cambridge, i piccoli tenderebbero a scegliere amici a loro affini, anche per quanto riguarda i livelli e la percezione della paura. A tal punto da restare impressionati, o ridimensionare il proprio stato di ansia in funzione dell’opinione del compagno. Tanto più se si è maschietti: pare infatti che siano proprio loro a essere più suggestionabili di fronte alla paura. Sono le conclusioni emerse da uno studio che ha valutato le reazioni di 236 bambini, 106 maschi e 136 femmine, di età compresa tra 7 e 10 anni, all’ascolto di informazioni su animali dall’aspetto spaventoso, sia in un contesto di solitudine, sia dopo averne parlato con gli amici. «Alcuni studi – ha dichiarato Jinnie Ooi, ricercatrice di psicologia e autrice principale dello studio – dimostrano che i bambini tendono a interagire con coetanei con cui condividono le stesse paure, fino a identificarsi con le percezioni dell’amico».
C’è però di più: la ricerca avrebbe infatti evidenziato che la paura è “di genere”, ovvero avvertita in maniera diversa, a seconda che sia vissuta da un maschietto o da una femminuccia. Queste ultime sembrano essere più coraggiose e meno suggestionabili: dopo la visione di alcune foto che ritraevano due animali poco noti – il cuscus e il quoll – e aver ascoltato due versioni diverse sugli animali, una neutra e una che li descriveva come pericolosi, i maschietti tendevano, in maniera maggiore rispetto alle bambine, a voler evitare il contatto con quegli animali: un chiaro indice di paura. «I disturbi d’ansia – ha concluso la ricercatrice – sono tra i problemi psicologici più comuni nei preadolescenti, che trovano radice già nell’infanzia. Obiettivo del nostro studio è di sensibilizzare al fenomeno e prevenirlo fin nei primi gradi di scuola, con attività e iniziative mirate e, laddove necessario, sviluppare schemi di trattamento specifici per disturbi d’ansia infantile». F.M.