Basta con le solite mimose o cioccolatini. Per l’8 marzo le donne si aspettano molto di più: vogliono il rispetto, il riconoscimento del loro operato e del loro valore, pari diritti e pari opportunità. Così, le donne della piattaforma Non una di meno (a cui aderiscono diverse associazioni come Di.Re, Udi, Io decido e i centri antiviolenza) hanno scelto di riprendere in mano l’8 marzo per farne una giornata di lotta. Al grido di “Se le nostre vite non valgono, non produciamo” sarà sciopero: produttivo e riproduttivo. In Italia come in Argentina (dove è stato lanciato e ha raccolto l’adesione di oltre 22 paesi, dall’Europa agli Stati Uniti). «Dopo anni di retorica, la Giornata Internazionale della donna tornerà a essere un momento di mobilitazione», ci dice Vittoria Tola, coordinatrice nazionale dell’Unione Donne Italiane, con la quale abbiamo voluto approfondire alcune tematiche in gioco.
In che cosa consiste questo sciopero? Come verrà attuato?
«Sarà uno sciopero non solo simbolico, ma reale. Astensione. Blocco delle attività. Di tutti i tipi. Per esempio dall’insegnamento, ma anche dal portare i bambini a scuola. Non accendere gli elettrodomestici. Non andare al lavoro. Non comprare niente. E per quelle che proprio non possono lasciare i loro compiti di cura, e devono occuparsi di figli e anziani, un momento comune, alle 18, in cui affacciarsi alla finestra e sbattere le pentole. L’obiettivo è fermare tutto, bloccare il Paese. Perché senza le donne si ferma tutto! Se delle nostre vite si può disporre (fino a provocarne la morte) perché ritenute di poco valore, vi sfidiamo a vivere, produrre, organizzare le vostre vite senza di noi. La giornata dell’8 marzo nasce per ricordare proprio uno sciopero. Era il 1908, quando un gruppo di operaie di un’industria tessile di New York scioperò come forma di protesta contro le terribili condizioni in cui si trovavano a lavorare. La protesta durò vari giorni. Scoppiò un incendio in cui morirono 129 operaie».
Fuori dalla fabbrica, quel giorno, si racconta, c’erano alberi di mimose…
«Compriamole, ma per carità facciamo anche un passo in avanti. Siamo infastidite dalla retorica pseudofemminista legata all’8 marzo. Perché poi, passata la retorica, tutto rimane esattamente come prima. Le risposte ai probelmi, purtroppo, scarseggiano. Dov’è la festa? In realtà non c’è niente da festeggiare in un paese che si trova (su 136 Paesi) ancora al 71esimo posto della classifica mondiale per quanto riguarda la parità di genere. In un paese dove aumenta la disoccupazione femminile e le discriminazioni sul lavoro non si arrestano, i femminicidi aumentano. Non c’è niente da festeggiare in un paese dove, dopo un processo lungo 20 anni, il violentatore di una bambina, che oggi è una donna di 27 anni, è stato prosciolto perché è scattata la prescrizione e chi è accusato di violenza sessuale può ottenere con il rito abbreviato lo sconto della pena».
Da che parte cominciare per cambiare?
«La violenza alle donne è la tematica più urgente. E non mi riferisco soltanto ai femminicidi e alle violenze fisiche che pure sono gravissime. La violenza non è solo quella che avviene nelle relazioni affettive. Lo è anche anche quella di uno Stato che ha smantellato i consultori e continua a lasciare la legge 194 sull’aborto ostaggio dell’obiezione, cosiddetta “di coscienza”. Non basta dire che siamo contro la violenza, se poi accettiamo che le donne abbiano una retribuzione fino al 20% inferiore a quella degli uomini a parità di mansione, di lavori non qualificati nonostante una maggiore scolarizzazione. Se accettiamo i tagli agli enti locali che impoveriscono il paese di asili nido e dei servizi sociali, le cui conseguenze ricadono in gran parte sulle donne. Questo elenco è lungo e soprattutto è sempre uguale, anno dopo anno. Perché gli uomini non sono cambiati. Almeno non quanto le donne. Questa è una realtà che non ci può trovare immobili, mute, rassegnate».
In questi giorni la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per non aver agito con sufficiente rapidità per proteggere una donna e suo figlio, nonostante le denunce presentate per gli atti di violenza domestica perpetrati dal marito (che hanno portato all’assassinio del ragazzo e al tentato omicidio della moglie). Non bastano le attuali leggi per prevenirla?
«Secondo la Corte di Strasburgo non è imputabile alle leggi in vigore in Italia, ma all’atteggiamento “passivo” adottato in particolare dalle forze dell’ordine, ma anche dai magistrati di fronte agli atti di violenza domestica subiti e denunciati dalla donna. Puntano il dito sul fatto che, nonostante la donna avesse sporto denuncia contro il marito per lesioni fisiche, maltrattamenti e minacce, e avesse chiesto misure urgenti per proteggere lei e i figli, erano passati 7 mesi prima che fosse ascoltata dalla polizia. E’ proprio questo che da tempo denunciamo: i principi della Convezione di Istanbul, un ottimo trattato internazionale contro le discriminazioni di genere, si scontrano, nella pratica, con la sottovalutazione delle denunce. In ambito penale, con la mancata applicazione delle misure cautelari, l’inadeguatezza della tutela processuale delle vittime/testimoni. In ambito civile, con provvedimenti in materia di affidamento dei figli minorenni che non tengono conto della violenza a cui sono stati costretti ad assistere e di misure volte a garantire la sicurezza dei minori nell’esercizio del diritto di visita. Nei tribunali per ogni assassino viene giocata la carta del raptus, dell’incapacità di intendere e di volere, o del patteggiamento. Un quadro che dovrebbe mettere in allarme qualunque ministro della giustizia».
Quali proposte si possono fare per aiutare le donne a uscire dalla violenza?
«I percorsi di uscita dalla violenza sono ancora difficili e complicati, il ruolo dei centri antiviolenza risulta depotenziato, la distribuzione delle risorse viene frammentata senza una regia organica e competente. Una nostra proposta è quella di un sostegno economico per le donne che denunciano le violenze e non lavorano, per aiutarle a emanciparsi dalla dipendenza economica che spesso impedisce di fuggire da situazioni di violenza. Chiediamo corsi di educazione alle differenze nelle scuole di ogni ordine per superare stereotipi di una società ancora maschilista. Sulla violenza contro le donne voglio solo ricordare l’enorme lavoro che abbiamo dovuto fare noi, in questi decenni, per farla emergere dalla cronaca nera o dai delitti passionali. Non si può risolvere il problema stigmatizzandolo sempre come opera di “mostri”. Occorre un serio lavoro di una trasformazione culturale con strumenti adatti, rimuovendo le barriere giuridiche e culturali, stereotipi e sessismo che ancora persistono nella società».
Donne e diritti. A che punto siamo?
«Il momento è duro. Vediamo leggi, da noi volute, che da tempo vengono sempre più svuotate. E’ il caso della legge 194: sotto attacco da anni, garantisce il diritto all’autodeterminazione della maternità e all’interruzione di gravidanza gratuita e sicura, ma incontra molti ostacoli per l’alto numero di medici obiettori di coscienza. Situazione che non è sfuggita al Consiglio d’Europa, che con due ricorsi della Laiga e della Cgil ha sanzionato l’Italia perché “viola il diritto alla salute delle donne” che vogliono abortire, poiché incontrano “notevoli difficoltà” nell’accesso ai servizi per l’Ivg. A livello procedurale questo organo chiederà conto all’Italia nel 2017 e nel 2018 delle strategie che intende compiere per risolvere questa situazione. Si stima che gli obiettori di coscienza siano in media circa il 70 per cento del totale, con picchi che superano il 90 per cento in alcune regioni. E’ inaccettabile che nel 2017 le donne che vogliono un aborto nella loro città siano costrette a rivolgersi a strutture di altre città o regioni. In Inghilterra è obiettore solo il 10% dei medici ed esistono centri di prenotazione aperti 24 ore su 24 e 7 giorni su 7. In Francia tutti gli ospedali pubblici hanno l’obbligo di rendere disponibili i servizi di interruzione della gravidanza. In Svezia il diritto all’obiezione di coscienza non esiste proprio. E continuano ad aumentare gli aborti clandestini: oltre 15mila…».
Restiamo sul fronte salute…
«Chiediamo l’estensione dell’uso della pillola abortiva Ru486 fino ai 63 giorni di gestazione, anziché solo i primi 49 giorni, come è già consentito in alcuni Paesi Europei come Gran Bretagna e Svezia. Più attenzione alla prevenzione, che dovrebbe passare attraverso un serio programma di educazione sessuale nelle scuole e un concreto supporto economico e professionale ai consultori, invece continuamente ridimensionati. Chiediamo un deciso cambio di passo nelle politiche a tutela della salute femminile. Un campanello di allarme è rappresentato dalla diminuzione delle aspettative di vita delle donne, che in Italia si sta allineando a quella maschile. Lo afferma il rapporto Osservasalute, secondo cui il fenomeno è legato a una riduzione della prevenzione e al peggioramento dello stile di vita. Nel 2015 la speranza di vita per gli uomini è stata 80 anni, 84,7 anni per le donne. Nel 2014, era 80,3 anni per gli uomini e 85,0 anni per le donne. Per tutelare realmente la salute delle donne e la loro fertilità non si può prescindere dal dato ecologico e dall’impatto che l’inquinamento ha sulle donne e sui bambini. Eppure vi è una totale assenza di riferimento ai fattori di rischio ambientale: manca una politica che garantisca sicurezza e risorse pulite e rinnovabili. Sempre più studi hanno dimostrato la connessione tra l’esposizione a composti diossina-simili e la crescente incidenza di endometriosi. Il disastro della Terra dei fuochi (nelle provincie di Napoli e Caserta) che è stata oggetto di traffici illegali di rifiuti, ha dimostrato che l’emergenza ambientale provoca malattie gravi, infertilità e patologie tumorali, malformazioni congenite. A Taranto, tra le città più inquinate d’Europa, l’incidenza di tumori al collo dell’utero è dell’80%, superiore rispetto alla media regionale di riferimento, mentre l’incidenza del tumore alla mammella è superiore del 24%. Chiediamo la chiusura delle fonti contaminanti».
C’è dunque ben poco da festeggiare? Quali i prossimi appuntamenti?
«Si festeggiano sicuramente l’impegno e il coraggio delle donne! La consapevolezza di tante donne, che credono nella forza delle proprie capacità e le mettono in campo, per affrontare le tante sfide che abbiamo di fronte. Il nostro percorso non si ferma all’8 marzo. La libertà delle donne è in cammino, anche se faticosamente. L’appuntamento sarà per il 22 e 23 aprile a Roma. Presenteremo un progetto ambizioso: il Piano nazionale femminista contro la violenza, in risposta a quello varato dal Governo nel 2015, che scadrà a giugno».
di Cristina Tirinzoni