Una donna su 4 non riesce ad avere figli; una su 4 li avrà con estrema naturalezza e due su 4 con molte difficoltà, che inducono spesso la coppia ad affrontare il percorso della fecondazione assistita. Non a caso il numero medio dei figli per donna in Italia è 1,27, se si considerano solo le italiane, e diventa 1,34 comprendendo le immigrate. L’età media del parto è 31,7 anni per le italiane e 27 per le immigrate. L’Italia è il Paese europeo dove si fanno figli più tardi. In Francia, Svezia e Paesi del Nord ad esempio l’età media della procreazione è di 27,5 anni, mentre Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca è intorno a 23,8. La Bulgaria detiene il primato per la più giovane età procreativa: 22,8 anni.
Sono alcuni degli argomenti trattati in occasione del convegno promosso a Roma dall’Accademia Internazionale della Riproduzione Umana (15-18 marzo).
«A incidere su questo calo di natalità nel nostro Paese non sono solo le difficoltà socio-economiche e lavorative, ma soprattutto il vissuto personale della donna, la difficoltà a trovare un partner stabile», conferma il professor Andrea Genazzani, segretario generale dell’Accademia. «Per questo l’età del primo figlio viene sempre più spostata in avanti e non coincide con il suo orologio biologico, il cui picco massimo di fecondità è tra i 16 e 22 anni. Dalla prima mestruazione al momento in cui la donna decide di procreare possono infatti passare anche 15-20 anni: un periodo troppo lungo in cui potrebbero presentarsi molte difficoltà, come la comparsa di fibromi, di endometriosi, di infezioni genitali che possono compromettere, anche definitivamente, la capacità procreativa. Nelle donne oltre 30 anni possono poi insorgere patologie, durante la gravidanza, come diabete, obesità, ipertensione, che ostacolano la prosecuzione di una gestazione naturale. Per questo la Medicina procreativa viene in aiuto alla donna e i successi di portare a termine una gravidanza sono passati, negli ultimi cinque anni, dal 15 al 50-60%».
Come si è arrivati a questi importanti risultati? «Le attuali tecniche di riproduzione assistita, a differenza degli anni precedenti, mirano non tanto al recupero di un gran numero di ovociti, ma soprattutto a garantire la loro qualità biologica», conferma il professor Pasquale Patrizio, direttore del Centro per la Fertilità del Dipartimento di Ostetricia e ginecologia della Yale University. «Per questo si cerca di conservare gameti di donne giovani, perché più avanti negli anni anche gli ovociti vanno incontro a un processo di “aterosclerosi” che ne riduce la vascolarizzazione e quindi la qualità biologica. Da uno studio che abbiamo appena pubblicato sulla rivista Molecular Human Reproduction, si è visto che il nutrimento dell’ovocita proviene dalle cellule del “cumulo ooforo” che lo circonda e che, a mano a mano che passano gli anni, si assottigliano. Da questa scoperta abbiamo ipotizzato la possibilità di somministrare sostanze antiossidanti per migliorare la qualità di queste cellule e di conseguenza arricchire il nutrimento dell’ovocita. E ciò potrebbe dare più chance procreative anche alle donne avanti negli anni. Ovviamente l’età ideale per l’utilizzo degli ovociti è prima dei 30 anni ed è il motivo per cui si sta diffondendo in America la tendenza del Social Freezing, ovvero di congelare preventivamente gli ovociti di donne giovani che, per vari motivi, intendono posticipare la gravidanza. Da uno studio di prossima pubblicazione abbiamo addirittura visto che la prima ragione per cui le donne giovani decidono di congelare i propri gameti è la mancanza del partner e quindi il posticipo del progetto procreativo. A queste si aggiungono tutte le giovani donne in cura con farmaci oncologici che sopprimono l’attività ovarica».
Ma per quanto tempo si possono conservare gli ovociti congelati e qual è l’età limite per l’impianto? «Abbiamo gameti femminili conservati da più di dieci anni e in Italia si possono impiantare in utero a una donna di età non superiore a 50 anni», conferma il professor Genazzani. «La tendenza attuale, raccomandata anche dalle recenti linee-guida sulla PMA, è quella di trasferire due embrioni nelle donne con più di 35 anni, perché le condizioni dell’utero avanti negli anni sono più a rischio, e non c’è garanzia di attecchimento. Viceversa, nelle donne giovani (con meno di 30 anni) se ne impianta uno solo, e si sceglie quello di migliore qualità. Fino a 35 anni le possibilità che l’embrione attecchisca sono del 25%; poi si abbassano rapidamente, fino al 5%. Con il trasferimento di un solo embrione, nelle donne più giovani, si è ridotto in maniera drastica il numero di gravidanze plurime e delle loro complicanze (parti prematuri, bambini pre-termine, basso peso alla nascita). Attualmente si cerca sempre di scegliere l’embrione di migliore qualità, e per questo è importante rivolgersi ai centri qualificati che abbiano la tecnologia adatta ad attuare questa selezione».
di Paola Trombetta