Più frequente e presente in diverse fasi della vita e per lunghi periodi, di maggiore intensità: sono tre buone ragioni che consentono di affermare che il dolore ha una dimensione più al femminile. Complici anche le caratteristiche genetiche della donna, le fluttuazioni ormonali, degli estrogeni in particolare, che influiscono sul Sistema nervoso centrale, rendendolo più sensibile e reattivo agli stimoli antalgici, e le differenze anatomiche che la espongono a una maggiore vulnerabilità al dolore. Lo confermano anche i dati di una vasta indagine condotta su oltre 85 mila adulti in 17 Paesi del mondo, diffusi nell’ambito della campagna di sensibilizzazione sul dolore “NienteMale” in vista della 2ª Giornata Nazionale della Salute della Donna che si celebra il prossimo 22 aprile, dalla quale emerge che la sintomatologia dolorosa cronica interessa il 45% delle donne, rispetto al 31% circa degli uomini, associandosi nell’8% dei casi anche a depressione. Ovvero le donne soffrirebbero, rispetto ai maschi, 3 volte di più di emicrania, 4 volte di cefalea tensiva cronica, 3 volte in più di artrosi, con picchi maggiori in menopausa, fino a 6 volte di più di fibromialgia e dal 35 al 59% dei casi (contro il 23-49% degli uomini) di dolori muscolo-scheletrici, in particolare di lombalgia.
A questi dolori si aggiungono quelli “di genere”, come la dismenorrea che secondo l’International Association for the Study of Pain (IASP) colpirebbe fino al 90% delle adolescenti e oltre il 50% delle donne adulte, o il dolore pelvico cronico.
«Inoltre le donne riconoscono il dolore più precocemente per una sorta di meccanismo auto protettivo», spiega la professoressa Alessandra Graziottin, direttore Centro di Ginecologia presso l’Ospedale San Raffaele-Resnati di Milano e presidente della Fondazione Graziottin per la cura del dolore nella donna Onlus. «Ciononostante, ricevono molta meno attenzione diagnostica e terapeutica, ritrovandosi così costrette a soffrire di più e più a lungo, con l’avanzare dell’età. Infatti, dopo la pubertà, le malattie infiammatorie e autoimmuni raddoppiano o addirittura triplicano nel sesso femminile, per effetto degli ormoni sessuali sulle cellule che regolano le difese immunitarie». Un chiaro esempio è il ciclo mestruale, durante il quale la fluttuazione degli estrogeni stimola la liberazione di sostanze infiammatorie nei tessuti, con aumento dell’infiammazione e del dolore associato. Sebbene, nonostante i numeri e la maggiore predisposizione, non vi sia ancora adeguata attenzione e considerazione del dolore femminile, qualcosa anche nel mondo della scienza e della conoscenza dei meccanismi che inducono dolore sta cambiando. «Negli ultimi anni – ha precisato Diego Fornasari, professore di Farmacologia all’Università degli Studi di Milano – è emerso che i meccanismi endogeni deputati alla modulazione e al controllo del dolore funzionerebbero in maniera differente tra maschi e femmine, in relazione all’assetto ormonale: nelle donne avrebbero infatti un’attività ridotta, che spiegherebbe anche la soglia al dolore più bassa». Ma la questione non si ferma qui, perché ci sarebbe anche una risposta “di genere” alle terapie, associata cioè a una diversità modalità di assorbimento, distribuzione, metabolizzazione ed eliminazione dei farmaci secondo il sesso. «Le donne – spiega il farmacologo – possiedono minori quantità di enzimi utili al metabolismo di alcuni farmaci, come gli antidepressivi o certi oppiacei e questo potrebbe determinare un maggiore accumulo nell’organismo».
Occorre allora che la donna faccia molta più attenzione all’uso dei farmaci, alla quantità assunta e al tipo di terapie. Scegliendo la molecola “giusta”, tra quelle con un alto profilo di sicurezza in termini di tollerabilità e di elevata efficacia per qualsiasi sintomatologia dolorosa. Tra queste il paracetamolo, che si può assumere con tranquillità anche nelle fasi più critiche della femminilità, quali la gravidanza senza rischio tossicità per il feto, o in post-menopausa quando comorbidità e politerapie possono esporre le pazienti anziane al rischio di interazioni farmacologiche. «In età fertile – puntualizza ancora la professoressa Graziottin – il paracetamolo è “di prima linea”, cioè una terapia prioritaria ed efficace nel trattamento della dismenorrea primaria e delle comorbidità, per le sue caratteristiche di sicurezza e minori effetti collaterali rispetto ai FANS. In gravidanza è indicato nel controllo di lombalgia o dolore pelvico, mentre in post-menopausa tiene a bada dolori ossei, articolari e muscolari, il cui rischio è raddoppiato in funzione del calo dell’azione protettiva degli estrogeni. Una terapia ormonale su misura è la prima cura antalgica, perché va a trattare la vera causa del problema, che può essere integrata vantaggiosamente con un analgesico ben tollerato, come paracetamolo e che le Linee Guida EULAR indicano come farmaco di prima scelta contro il dolore artrosico». Ma non solo: «In virtù della sua tollerabilità – conclude Fornasari – il paracetamolo può essere usato in sicurezza con altri farmaci, come antinfiammatori e oppiacei, rappresentando anche un punto di riferimento nelle terapie che utilizzano più analgesici per colpire i diversi meccanismi del dolore, con un’azione sinergica che garantisce un’efficacia maggiore, a fronte di dosaggi più bassi».
di Francesca Morelli