Sembrano avere un udito migliore degli uomini e forse si spiegano così le note “performance linguistiche” delle donne. Anche perché gli uomini sono più esposti a lavori in ambienti rumorosi, a rischio di traumi professionali, a fattori di scompenso metabolico che contribuiscono a peggiorare la soglia uditiva. La donna, per lo meno fino a 50 anni, sembra essere protetta dagli estrogeni. Dopo questa età, i rischi di ipoacusie o infiammazioni dell’apparato uditivo aumentano, ma non raggiungono le percentuali dell’uomo. Anche perché la donna, se ci sente di meno, si cura meglio e ricorre più facilmente agli apparecchi acustici. Ed è lei che, nel nucleo familiare, convince i genitori anziani con ipoacusia, a utilizzarli.
Per fare il punto sui disturbi uditivi al femminile, abbiamo intervistato la dottoressa Anna Rita Fetoni, della Clinica Otorinolaringoiatrica del Policlinico Gemelli di Roma, incontrata in occasione del Convegno internazionale “Hearing and Cognition” a Siviglia, promosso dal Centro Studi e Ricerche Amplifon, in collaborazione con la Fondazione Giovanni Lorenzini.
Quali sono i disturbi uditivi più frequenti nella donna?
«Una delle malattie più comuni, rispetto all’uomo, è l’“otosclerosi”, causata dalla formazione di osso neoformato all’interno dell’orecchio, che impedisce il normale movimento degli ossicini responsabili della trasmissione del suono. Questa malattia è causata dalla progressiva perdita uditiva e talvolta dalla comparsa di acufeni (la fastidiosa presenza di rumore avvertito dal paziente in modo continuo nell’orecchio e in testa), la cui evoluzione nella donna è legata alle variazioni ormonali: può comparire all’improvviso in gravidanza e peggiorare durante l’allattamento e avere una progressione maggiore con la menopausa. Di solito ha una componente familiare e si trasmette in linea femminile, da mamma o zie. Oggi può essere trattata chirurgicamente con successo, se diagnosticata precocemente. Un’altra forma di ipoacusia, più comune nella donna, è la malattia di Menière, caratterizzata da crisi di vertigini molto invalidanti, con acufeni intensi e fastidiosi. Basti pensare che Van Gogh, affetto da questa patologia, arrivò addirittura ad amputarsi un orecchio, nella vana speranza di attenuare il dolore. E’ una malattia insidiosa, perché non esiste una cura certa e sempre efficace: sono molto usati diuretici, cortisonici, antiossidanti, e in casi più gravi di vertigine si deve addirittura distruggere la funzione vestibolare con un antibiotico tossico (gentamicina) iniettato direttamente nell’orecchio. In altri casi l’ipoacusia può comparire improvvisamente a un orecchio, senza sintomi: si parla allora di ipoacusia improvvisa, correlata a cause virali, vascolari e talvolta immunologiche, più frequenti nella donna. Rappresenta una vera e propria emergenza, in quanto solo un trattamento farmacologico precoce può scongiurare la perdita uditiva».
Ci sono dunque patologie uditive che rappresentano vere urgenze cliniche?
«Come già accennato, l’ipoacusia improvvisa può essere associata ad acufeni e vertigini, conosciute come labirintiti o neuriti cocleari, che richiedono una valutazione al Pronto Soccorso. Questi casi possono essere causati da infezioni quali Borrelia o virus come Herpes tipo 1, Varicella Zooster, o in rari casi, da una pregressa infezione da Citomegalovirus che, se contratta in gravidanza, può provocare malformazioni neurologiche e sordità nel feto. Altre cause sono di natura vascolare o legate al sistema immunitario, quali la malattia di Cogan, di Behet, il lupus eritematoso, più frequenti nella donna. In alcune malattie di origine autoimmune, come la Sclerosi Multipla, l’ipoacusia o le vertigini possono essere addirittura i primi campanelli d’allarme. In ogni caso, i diversi protocolli terapeutici prevedono l’uso di corticosteroidi: quello che conta è rivolgersi a un Centro specializzato e iniziare subito un trattamento».
I disturbi dell’udito peggiorano con gli anni, anche nelle donne. Alcuni studi hanno confermato addirittura una correlazione con i deficit cognitivi: c’è una possibile spiegazione?
«Al congresso di Siviglia sono stati presentati diversi studi, tra cui uno dell’Università di Manchester e uno che stiamo svolgendo al Policlinico Gemelli di Roma. Da queste ricerche emerge le relazione tra peggioramento di deficit cognitivo nelle persone over 65 anni, con ipoacusia non trattata. Il nostro studio è stato condotto su più di 100 persone, ma per avere dati certi serviranno numeri maggiori di pazienti, seguiti per diversi anni. Abbiamo comunque osservato che le persone con deficit uditivo hanno una maggior riduzione delle abilità cognitive. Perciò le protesi acustiche potrebbero aiutare a mantenere la funzionalità uditiva e quindi influire positivamente sulle capacità cognitive. Studiando i neuroni della corteccia uditiva, abbiamo visto che la mancanza di stimolazione si ripercuote a livello cerebrale come un’alterazione morfologica delle terminazioni nervose. Inoltre, la persona che non sente bene tende a isolarsi, a essere meno recettiva e reattiva, fino alla depressione che, a sua volta, peggiora il deficit cognitivo. E pare che si registri un’aumentata incidenza di demenza e malattie neurodegenerative come l’Alzheimer, anche se sono necessari ulteriori studi in proposito».
Una giusta soluzione acustica potrebbe quindi migliorare anche le performance cognitive e rallentare la comparsa di patologie come l’Alzheimer?
«Sicuramente le protesi acustiche consentono alla persona di sentire meglio e di interagire più attivamente e consapevolmente con l’ambiente circostante. E questo lo abbiamo dimostrato anche nel nostro studio. La giusta stimolazione acustica sembrerebbe potenziare l’attenzione, la memoria e la reattività. Recenti studi di neuroimaging hanno dimostrato, nelle persone che non sentono bene, una riduzione dei fasci nervosi di sostanza bianca nella zona uditiva del cervello».
L’utilizzo di protesi acustiche dovrebbe allora essere favorito, non solo per una migliore qualità di vita nel presente, ma anche per la prevenzione di patologie future…
«Purtroppo esistono ancora molti pregiudizi sull’uso delle protesi acustiche. Su più di 7 milioni di italiani che hanno un calo uditivo, solo 1,8 milioni portano apparecchi acustici. E trascorrono in media 7 anni prima che la persona si rivolga allo specialista, con inevitabile peggioramento della condizione clinica. Perché tante persone con problemi visivi indossano tranquillamente gli occhiali, mentre chi ha problemi uditivi impiega così tanto tempo a decidere di ricorrere a un apparecchio acustico? Da questo punto di vista le donne appaiono più decise, forse perché basta un taglio diverso di capelli per nascondere completamente l’apparecchio, oggi quasi invisibile. Gli uomini sono più restii e sono ancora una volta le donne a convincerli, siano essi mariti o padri. Il ruolo di caregiver della donna è fondamentale anche per affrontare questo tipo di disturbi».
di Paola Trombetta
Il “doppio” legame che unisce sordità e declino cognitivo
C’è un “doppio” nodo che lega udito e funzionalità cerebrali. Al calo del primo corrisponderebbe un declino cognitivo, più spesso associato a una compromissione di memoria, concentrazione e pianificazione dei pensieri, con un rischio triplicato che si possa sviluppare anche una demenza. In direzione contraria, in tre casi su 4, il deficit cognitivo avrebbe come “effetto collaterale” un disturbo dell’udito. La stretta relazione fra orecchio e cervello emerge dal Rapporto “Il cervello in ascolto. Lo stretto intreccio tra udito e abilità cognitiva”, realizzato da Amplifon, che denuncia come i due fenomeni clinici stiano diventando “un’emergenza” sociale, da monitorare soprattutto negli anni futuri. Ad oggi infatti 360 milioni di persone nel mondo convivono con un calo dell’udito, mentre 47 milioni sono affetti da una forma di demenza: numeri importanti, con una previsione di crescita esponenziale entro il 2050. Come si spiega la relazione demenza-capacità uditiva? «La perdita di udito comporta una riduzione delle diramazioni neuronali che si traducono in un peggioramento cognitivo, evidente soprattutto nell’alterata percezione e comprensione verbale», risponde Camillo Marra, docente di Neurologia all’Università Cattolica di Roma. «Due condizioni che possono favorire la comparsa di ipoacusia, che interessa una persona su 3 dopo i 65 anni, riconoscibile dalla richiesta di ripetere più volte singole parole o intere frasi, ma anche dalla necessità di ascolto ad alto volume».
Ad aggravare il problema possono influire altri fattori, quali lo stress, un affaticamento organico generale. «A seguito di queste alterazioni uditive, che si ripercuotono sul sistema nervoso centrale, il cervello deve attivare una serie di meccanismi compensatori che lo rendono meno efficiente per lo svolgimento di altre funzioni cerebrali, con un calo di potenzialità anche del 30%. L’effetto collaterale associato a questo deficit è l’aumento del rischio di una precoce compromissione di funzioni come l’attenzione, la memoria e le capacità strategico-esecutive che conducono a poco a poco a un isolamento socio-relazionale». Se le cause che stimolano questo doppio legame non sono ancora del tutto note, vi è invece evidenza di efficacia nella correzione tempestiva del deficit uditivo. «Gli ultimi studi – conclude Gaetano Paludetti, direttore dell’Istituto di Otorinolaringoiatria dell’Università Cattolica di Roma – dimostrano come l’amplificazione acustica si associ a un declino cognitivo più lento in un arco di 25 anni, permettendo di mantenere una buona funzionalità cerebrale. Si stima che rallentare di un solo anno l’evoluzione dell’ipoacusia possa portare a una riduzione del 10% del tasso di demenza nella popolazione». Oggi le opportunità terapeutiche per correggere l’ipoacusia sono molteplici: dalle cure farmacologiche, agli interventi chirurgici nei casi più gravi, agli apparecchi acustici che, grazie alle nuove tecnologie, hanno raggiunto dimensioni quasi invisibili, con soluzioni sempre più personalizzate. F.M.