Si è occupata da sempre di malattia di Alzheimer, di cui il 21 settembre si celebra la Giornata mondiale (vedi news Medicina). E per queste sue ricerche nel lontano 1996 ha vinto una delle prime borse di studio messe a disposizione dalla SIF (Società Italiana di Farmacologia). Luigia Trabace è professore ordinario di Farmacologia all’Università di Foggia e membro del Consiglio direttivo della SIF. A lei spetta oggi il compito di consegnare a 15 giovani ricercatori, di cui 14 donne, le borse di studio (5 da 25mila euro e 10 da 10mila euro) messe a disposizione, per il terzo anno consecutivo da MSD Italia, in partnership con la SIF (Società Italiana di Farmacologia). E nei prossimi giorni questi giovani ricercatori inizieranno le rispettive attività di ricerca in differenti ambiti della farmacologia clinica, neurofarmacologia, neuroendocrinologia, oncologia di precisione, immunoterapia.
Per capire le motivazioni che spingono tante giovani ricercatrici a concorrere a queste borse di studio e poter dare un futuro alla loro passione per la ricerca, abbiamo rivolto alcune domande a Luigia Trabace che vent’anni fa ha ottenuto questa borsa di studio e da allora è stato un susseguirsi di importanti successi nella ricerca della genesi di una malattia come l’Alzheimer.
Cosa l’ha spinta a partecipare a questo bando e quali risultati ha conseguito?
«All’epoca mi ero laureata da poco in Farmacia all’Università di Bari e stavo facendo un dottorato di ricerca in Farmacologia clinica all’Istituto Mario Negri di Milano, occupandomi di alcuni neurotrasmettitori coinvolti nella malattia di Alzheimer. Già mi sembrava di aver raggiunto un traguardo importante e avevo acquisito tecniche innovative che ero poi riuscita a trasferire nei nostri laboratori di Foggia. Ma il mio professore del’Università di Bari, Vincenzo Cuomo, mi aveva spronato a fare anche un’esperienza all’estero. E così mi sono lasciata convincere e ho partecipato al bando di concorso della SIF, vincendo una borsa di studio per una ricerca da condurre in alcuni laboratori in Inghilterra. All’inizio sono partita con l’idea di rimanere là soltanto sei mesi. In realtà mi sono fermata due anni, poi sono rientrata e sono ritornata più volte negli anni successivi, mantenendo sempre i rapporti con i colleghi inglesi».
Qual era l’argomento della sua ricerca in Inghilterra?
«Già all’Università di Bari studiavo un tipo di neurotrasmettitori del sistema nervoso centrale, particolarmente importanti nell’eziopatogenesi della malattia di Alzheimer, che è ancora “orfana” di farmaci risolutivi. E ho avuto l’opportunità di proseguire queste ricerche in Inghilterra, avvalendomi dell’esperienza di un’équipe di ricercatori e delle loro più avanzate tecniche di laboratorio, che sono poi riuscita in parte a trasferire nei nostri laboratori di Foggia. Ancora oggi sono concentrata in questa ricerca, che spero possa portare a risultati concreti nella prevenzione e nella cura dell’Alzheimer».
Il suo essere donna ha condizionato la professione, limitando magari viaggi o esperienze?
«Oserei dire, al contrario, che l’essere donna mi ha in un certo senso avvantaggiata. La mia vita privata non ha affatto risentito della mia passione per la ricerca scientifica. Ho avuto due figlie, che oggi hanno 19 e 12 anni, e sono sempre stata in grado di conciliare lavoro e famiglia. Ricordo che quando aspettavo la seconda figlia ho continuato a lavorare da casa, anche col pancione, perché ero impegnata in una ricerca molto impegnativa che non potevo interrompere. Oggi alcune mie ricercatrici allattano in laboratorio, pur di non rallentare il lavoro. Anche perché i diversi step di una ricerca non possono subire interruzioni o slittamenti e la presenza costante del ricercatore è fondamentale. Noi donne abbiamo il vantaggio di riuscire ad essere più organizzate, sia in famiglia che nel lavoro. E poi siamo più concrete, pazienti e ostinate nel perseguire i risultati che, prima o poi, comunque arrivano. E le soddisfazioni alla fine non mancano!»
di Paola Trombetta