«Ero una bambina e avevo già conosciuto il dolore! Il dolore di una mutilazione, come quella dei genitali, che ti fa sentire meno donna ma che devi sopportare in silenzio. Io invece mi sono ribellata, e con l’aiuto di mia mamma sono fuggita da una situazione inaccettabile, dove l’uomo, tuo padre, che pensavi ti amasse, in realtà ti vende come una schiava a un altro uomo che diventa il tuo padrone. No, ho detto basta! E ho voluto dare l’esempio a tante bambine che hanno vissuto la mia stessa mutilazione. È inammissibile che oggi esistano ancora situazioni del genere, dove la donna deve lottare per conquistare i suoi diritti, in un continente, come quello africano, ancorato a una cultura tribale e maschilista. Ed è giunta l’ora che anche gli uomini dicano no a queste pratiche, che ledono la dignità della donna, con grossi rischi per la sua salute».
È l’accorato appello di Milga, la protagonista del cortometraggio, presentato di recente al Forum della Salute, alla Leopolda di Firenze, ispirato al libro: “Fiore del deserto” di Waris Dirie.
Oggi ancora 200 milioni di donne subiscono la mutilazione dei genitali e l’infibulazione, una pratica che porta con sè, oltre al dolore, il grosso rischio di infezioni, a causa della mancata fuoriuscita di sangue mestruale e delle urine. E questo accade ancora in Paesi, come la Somalia, benchè dal 1997 esiste una legge contro l’infibulazione. Ma accade purtroppo anche in Italia dove, nonostante sia proibita dalla legge, viene eseguita clandestinamente da persone che compiono queste pratiche per denaro, senza avere la minima formazione sanitaria.
A denunciare tutto questo sono due medici, Lucrezia Catania e il marito Omar Abdulcadir, che hanno aperto all’Ospedale Careggi di Firenze un ambulatorio per la deinfibulazione, al quale affluiscono molte donne con gravi infezioni ai genitali, dopo queste pratiche compiute in totale assenza di condizioni igieniche.
«Da 40 anni sono al fianco di mio marito nella lotta contro le mutilazioni genitali», conferma la dottoressa Lucrezia Catania, ginecologa a Firenze. «Ci stiamo battendo per informare le ragazze, a partire dalle scuole, che questa pratica deve essere abolita, perché è contro la dignità della donna, è un retaggio del passato, di una cultura tribale e maschilista che non può avere presente, né futuro». «In questi dieci anni di attività del nostro ambulatorio, abbiamo eseguito più di 200 deinfibulazioni e nessuna di queste donne ha voluto poi far infibulare le proprie figlie», puntualizza il dottor Omar Abdulcadir. «E abbiamo dovuto intervenire in situazioni particolarmente compromesse, a causa di gravi infezioni subentrate e cronicizzate negli anni. Stiamo lavorando molto anche sui mariti, per far loro capire i rischi e le complicanze di queste pratiche. Non basta infatti eseguire un intervento di deinfibulazione: sempre più spesso occorre “guarire” anche la “mutilazione mentale”. Per questo, nel nostro ambulatorio, sono sempre presenti una psicologa e un’infermiera, che aiutano le donne a superare la sofferenza, che non è solo fisica».
Lo conferma Marion Canu, infermiera somala, che lavora con il dottor Abdulcadir. «Ho lavorato per molti anni all’ospedale di Mogadiscio e ho assistito tante donne che si sono sottoposte ad infibulazione. Ma ho anche aiutato altrettante ragazze che non volevano essere infibulate. Questa pratica è una piaga culturale che bisogna combattere! Non è una retaggio del passato, ma una negazione della femminilità, e rappresenta una cicatrice indelebile che la donna si porta per tutta la vita e la condizionerà nei rapporti affettivi, provocando dolore alla penetrazione, per non parlare delle enormi difficoltà durante il parto e dei rischi di infezioni croniche che possono compromettere la salute».
di Paola Trombetta