È nata e cresciuta in Africa a Gulu, un piccolo paese nel Nord dell’Uganda. Dominique è figlia unica di Lucille Teasdale, chirurga infantile canadese, e Piero Corti, pediatra di Besana Brianza che nel 1961 si trasferisce a Gulu, in Uganda, e, con la moglie Lucille, si prodiga per tutta la vita per gestire l’Ospedale St. Mary di Lacor, oggi una delle strutture sanitarie più importanti di questa nazione, divenuto Polo Universitario, con oltre 500 studenti l’anno che frequentano corsi per diventare infermieri, ostetriche, tecnici di laboratorio e anestesia, assistenti di sala operatoria. L’ospedale ha più di 500 posti letto, è in grado di curare 250mila pazienti ogni anno, di cui l’80% sono donne e bambini, i più colpiti da povertà e condizioni di vita estreme. E proprio in occasione della Giornata dedicata ai diritti dell’infanzia (20 novembre) abbiamo voluto intervistare Dominique Corti, che ha dedicato la sua vita a gestire un ospedale in cui vengono salvati ogni anno centinaia di bambini con malattie e malnutrizione, in un Paese dove 90 bambini su 1000 nati non raggiungono i 5 anni a causa di malaria, polmonite, diarrea. A loro è dedicato il libro fotografico di Mauro Fermariello: “Ritorno al Lacor. Appunti di viaggio da un grande ospedale africano” che sarà presentato il 20 novembre, alle 18, presso il Centro Congressi della Fondazione Cariplo, via Romagnosi 8, a Milano. Per info: www.fondazionecorti.it
Da dove nasce il progetto dell’Ospedale di Lacor e perché ti sei dedicata “anima e corpo”?
«Nasce dai miei genitori, in particolare da papà Piero che, fresco di specializzazione in Pediatria, arriva a Gulu, nel Nord dell’Uganda, su invito del vescovo di quella cittadina, dove si trovava un ospedale, ma mancavano i medici per farlo funzionare. E in questa sua avventura coinvolge la futura moglie, mia mamma Lucille che, dopo aver vinto una borsa di studio per l’ultimo anno di specialità, accetta di accompagnarlo “per un paio di mesi”, il tempo di avviare la sala operatoria al St.Mary’s Ospital di Lacor. Vi rimarrà invece per tutta la vita! Anch’io ho condiviso il loro progetto: per diversi anni però mi sono allontanata dall’Africa per venire a studiare a Milano, dove mi sono laureata in Medicina e Chirurgia. Ma ora sono totalmente coinvolta e sto portando avanti la Fondazione, che porta il nome dei miei genitori, e sostiene l’ospedale con la ricerca di fondi e finanziamenti per poterne proseguire l’attività».
La tua grande passione per questo progetto ha dunque radici molto lontane. Come ha influito la cultura africana nella tua vita?
«Sono nata in Africa, praticamente all’Ospedale di Lacor, nel 1962, l’anno stesso in cui l’Uganda ottiene l’indipendenza e mi considero perciò “figlia dell’indipendenza”. Ho frequentato le scuole elementari nel villaggio vicino all’ospedale, assieme ai bambini africani: ero l’unica “bianca”. E trascorrevo il tempo libero a far compagnia ai piccoli in ospedale. Parlavo la lingua acholi e l’inglese con i compagni; a casa il francese e l’italiano con i missionari e i parenti italiani. Per alcuni anni sono stata in Italia a studiare ed ero ospite da mia zia: staccarsi dai miei genitori è stata una grande sofferenza! Per questo sono rientrata in Africa dove ho frequentato le scuole superiori in Kenia: stavo là tre mesi e poi rientravo per un mese a Gulu. In tutti questi anni ho conosciuto persone e tradizioni culturali tra le più disparate. E questo mi ha permesso di sviluppare un forte senso di adattamento e di confronto. Gli africani sono diversi da noi: molto educati e gentili, hanno però simboli comunicativi, anche non verbali, che non lasciano intendere a noi stranieri. E non sempre è facile entrare in sintonia. C’è voluta una grande pazienza e costanza, da parte dei miei genitori, per lavorare con loro e soprattutto far loro comprendere l’importanza delle norme igieniche, di certe tecniche operatorie, sradicando abitudini che potevano invece rivelarsi dannose alla salute. Come quando è scoppiata l’epidemia di Ebola nel 2000, dove certe precauzioni igieniche erano fondamentali per evitare il contagio. Come quella di far seppellire i morti lontano dalle abitazioni».
È stata un’esperienza molto difficile che però avete affrontato con grande coraggio. Quali ricordi hai di questo brutto periodo?
«Il ricordo più triste, che mi accompagna ancora adesso, è stata la morte a soli 41 anni del dottor Matthew Lukwiya, nostro direttore sanitario, il primo ad aver capito che si trattava di un’epidemia molto pericolosa, che provocava febbre emorragica e morte in pochi giorni. Con la forza della sua personalità, ha fatto di tutto per trattenere il personale sanitario, che voleva allontanarsi dall’ospedale, e ha creato un reparto di isolamento per gli infetti. Ha poi convinto i familiari dei malati ad abbandonare le loro tradizioni di lavare le salme e seppellirle vicino a casa: questo ha evitato che molte altre persone venissero contagiate dal virus. Abbiamo avuto “solo” 400 infetti, di cui 200 morti, in una nazione dove il virus aveva provocato diverse migliaia di morti. Purtroppo Matthew è stato tra questi, assieme ad altri 12 membri del nostro ospedale. Dopo la sua morte, eravamo tutti sconvolti e pensavamo addirittura di chiudere i battenti. Per fortuna abbiamo continuato con coraggio e tenacia!».
Chi gestisce ora l’ospedale? E il tuo impegno per la Fondazione?
«Dopo la morte della mamma, che ha vissuto per dieci anni con l’infezione da HIV, contratta mentre operava pazienti infetti, e di mio papà, in seguito, dal 2008 la gestione dell’Ospedale è affidata a tre medici ugandesi, al Lacor da oltre 20 anni. Sono il dottor Opira Cyprian, direttore generale, il dottor Odong Emintone, direttore sanitario e il dottor Ogwang Martin, direttore affari istituzionali. Personalmente ho scelto di occuparmi della Fondazione e non esercitare come medico: loro sono ottimi professionisti, ma senza mezzi finanziari non possono lavorare. E la mia sfida, che è anche la mia missione, è quella di sostenere la Fondazione, raccogliendo fondi da amici e simpatizzanti, enti privati, istituzioni: la CEI per esempio sostiene l’ospedale con progetti di sviluppo. Nel nostro piccolo, organizziamo eventi per raccogliere fondi, come la recente mostra fotografica e sfilata di abiti africani alla Villa Reale di Monza o la presentazione e vendita del libro “Ritorno al Lacor” di Mauro Fermariello, in programma il 20 novembre alla Fondazione Cariplo a Milano. Con l’aiuto di tanti amici e sostenitori, spero così di poter mantenere, di anno in anno, l’impegno preso e rispettare la volontà dei miei genitori che hanno dedicato la loro vita all’ospedale di Lacor, al quale sto dedicando anche la mia».
di Paola Trombetta