«I primi campanelli d’allarme risalgono alla scuola materna. Denise mi chiedeva spesso di ripetere le domande perché non capiva bene. Abbiamo consultato subito il pediatra che ci ha consigliato una visita dall’otorino: tutto sembrava nella norma. Non eravamo però tranquilli, perché queste richieste di ripetizioni diventavano sempre più frequenti. E con mio marito abbiamo deciso di rivolgerci al Policlinico Umberto I di Roma, dove abbiamo ricevuto una doccia gelata: la diagnosi, nuda e cruda, fu di “ipoacusia neurosensoriale bilaterale”. Considerando la gemellarità, ci dissero di portare al controllo anche Daniela, che ricevette la stessa diagnosi. In parole semplici le nostre gemelle stavano diventando sorde! Ma com’era possibile? Non avevano mai dato segni prima. E avevano sempre parlato correttamente, senza alcun problema, usando una terminologia appropriata che le bimbe della loro età non sempre hanno. Per me è stato un grosso trauma, che comunque sto affrontando giorno per giorno, anche se non riesco ancora ad accettare… Ci siamo rivolti allora al Reparto specializzato dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma, dove abbiamo incontrato persone di grande professionalità e umanità che si sono subito prese cura delle nostre gemelle. A Denise è stata applicata la protesi acustica quando aveva 4 anni e mezzo, nell’ottobre del 2014; a Daniela sei mesi dopo, a febbraio 2015. Il problema sembrava risolto e le bambine sentivano perfettamente. Ma dopo aver effettuato esami più approfonditi, non solo per capire eventuali deficit uditivi, ma anche scoprire se c’erano altri problemi fisiologici o genetici, i medici emisero il verdetto. Si trattava di una rara sindrome, denominata di Mondini, per cui l’apparato vestibolare era più grande del normale e creava questi problemi di calo dell’udito, perché i suoni si disperdevano e non arrivavano direttamente al nervo acustico. Per questo ci proposero l’impianto cocleare, come l’unica soluzione definitiva possibile.
Eravamo molto preoccupati, ma sentendo le spiegazioni dei medici e pensando al futuro delle nostre gemelle, abbiamo preso la difficile decisione. A Denise hanno impiantato l’elettrodo, collegato direttamente alla coclea, a giugno 2016; a Daniela a febbraio di quest’anno. Sono stati giorni di ansia, perché comunque si tratta di un intervento abbastanza invasivo, in anestesia totale, che consiste nell’impiantare un elettrodo all’interno della coclea, a contatto con le fibre nervose. E’ collegato attraverso una calamita al dispositivo esterno, una sorta di microchip che raccoglie ed elabora le informazioni. Oggi le gemelle sentono perfettamente, anche se ogni 3-4 mesi andiamo ancora al controllo, che dovrebbe essere poi diradato una volta all’anno. Siamo molto contenti di aver preso questa decisione, superando le paure e le ansie. E lo abbiamo fatto pensando al bene delle nostre figlie che non devono essere private della piena efficienza di un organo, come l’udito, fondamentale per vivere! Speriamo che il nostro esempio serva a tante altre coppie che, magari, sono titubanti nel prendere questa importante decisione».
Imma, assieme al marito Vincenzo, sono presenti con le loro considerazioni e consigli sulla pagina facebook (affrontiamolasorditainsieme), creata da alcuni genitori per parlare di questa malattia e delle nuove tecnologie che la risolvono.
Per saperne di più, abbiamo intervistato la dottoressa Sara Giannantonio, del Reparto di Audiologia e Otologia dell’Ospedale Bambino Gesù di Roma, che ha preso in carico in questi anni Denise e Daniela.
In quale percentuale si verificano fenomeni di ipoacusia e di sordità profonda nei bambini e a quale età vengono individuati?
«Ogni anno in Italia un bambino su 1000 presenta alla nascita una perdita uditiva (ipoacusia) neurosensoriale bilaterale sufficientemente grave da pregiudicare un normale sviluppo del linguaggio. Questo numero poi tende a crescere, se consideriamo i bambini con fattori di rischio audiologici (gravi prematuri, bambini con sofferenza perinatale o infezione congenita da Citomegalovirus, familiarità per sordità), coloro che hanno deficit parziali dell’udito (monolaterale o bilaterale) o che presentano forme progressive di ipoacusia, che compaiono o tendono ad aggravarsi nei primi anni di vita. Nel 25-30% dei casi, alla nascita l’ipoacusia è di grado profondo, ossia tale da impedire la percezione di suoni di intensità superiore a 90 dB HL. Ne consegue che un bambino, affetto da ipoacusia neurosensoriale profonda bilaterale congenita, non sarà in grado di udire stimoli sonori di alcun tipo. In passato, l’assenza di protocolli di screening ha comportato gravi ritardi nella diagnosi di queste problematiche, con ripercussioni spesso incolmabili in termini di sviluppo del linguaggio. Attualmente, grazie alla definizione di programmi di screening uditivi neonatali, è possibile avere una diagnosi di ipoacusia entro 3 mesi di vita, epoca ideale per iniziare la riabilitazione percettivo-uditiva e comunicativo-linguistica del piccolo paziente. L’individuazione precoce delle ipoacusie ci permette infatti di mettere in atto tutte quelle strategie protesico-riabilitative opportune per poter garantire un normale sviluppo del linguaggio in un’epoca di sviluppo cerebrale in cui un’adeguata esposizione al mondo dei suoni consente di colmare il divario con i coetanei normoudenti».
Ci sono screening neonatali o esami specialistici per individuare precocemente questi problemi?
«Attualmente disponiamo di test sensibili e specifici per l’individuazione precoce delle sordità: le otoemissioni acustiche e i potenziali evocati uditivi del tronco encefalico. Il primo è diretto ai bambini senza fattori di rischio audiologico, mentre una combinazione dei due test è necessaria per tutti coloro in cui si possa sospettare, dalla storia clinica personale o familiare, un rischio aggiuntivo di sordità. Si tratta di test non invasivi, rapidi e di semplice esecuzione, che possono essere effettuati anche direttamente nei centri nascita e, non prevedendo la collaborazione attiva del paziente, consentono di ottenere informazioni utili. Ciò permette di approdare, in epoche molto precoci di sviluppo, a un sospetto di sordità (anche solo dopo un’ora di vita!), meritevole di approfondimento diagnostico nelle sedi preposte (centri audiologici di riferimento). Il test restituisce un esito “PASS”, quando è possibile registrare segnali della integrità anatomico-funzionale della periferia uditiva (orecchio interno, nervo uditivo), mentre il risultato “REFER” non si traduce automaticamente in “sordità”, ma indica la necessità di dover procedere a un approfondimento diagnostico. In alcune circostanze, infatti, l’esito REFER è legato alle difficoltà tecniche di esecuzione dell’esame (es: presenza di molto rumore di sottofondo durante l’esecuzione dello stesso) o a problemi meccanici transitori (es: tappo di cerume, catarro endotimpanico). È fondamentale a tal proposito sensibilizzare tutte le figure sanitarie che orbitano intorno al piccolo paziente, in primis i pediatri di famiglia, circa l’importanza dello screening neonatale. I pediatri infatti hanno il compito di accertarsi sull’avvenuta esecuzione del test di screening o degli accertamenti consigliati in caso di esito “dubbio”».
In caso di diagnosi positiva, quali accorgimenti o soluzioni trovare?
«Al momento della diagnosi, la famiglia viene bruscamente gettata in un turbine di informazioni, prospettive e dati non sempre attendibili. Molti di essi si informano tramite internet, mezzo di comunicazione tanto potente quanto pericoloso. La prima “soluzione” è affidarsi a un’équipe multidisciplinare di esperti nel settore e non aspettare. Il successo riabilitativo protesico e del linguaggio è infatti inversamente proporzionale al tempo di deprivazione acustica, ovvero al periodo in cui il bambino rimane nel “buio uditivo”. Una diagnosi accurata e un intervento protesico-riabilitativo tempestivo mettono il bambino nella condizione di esplorare il mondo dei suoni in un’epoca in cui il cervello è al massimo della sua plasticità. Per tale ragione, prima ci si rivolge agli specialisti e meglio è».
Un’ipoacusia, se trascurata, può trasformarsi in sordità?
«In termini medici ogni ipoacusia è una sordità. Ciò che le differenzia è fondamentalmente la natura (trasmissiva, neurosensoriale o mista) e l’entità (lieve, moderata, severa, profonda). Spesso è la causa dell’ipoacusia a determinare un possibile aggravamento (tra le più comuni cause di forme progressive di sordità c’è l’infezione da Citomegalovirus o condizioni malformative come l’acquedotto vestibolare largo); pertanto è possibile che, con il passare del tempo, una ipoacusia peggiori nella sua gravità con inevitabili conseguenze sulla qualità di vita del paziente».
Purtroppo non sempre la sordità viene individuata e trattata. Non sono rari i casi di bambini sordi scambiati per autistici. Quali strumenti potrebbe avere il pediatra di famiglia?
«I bambini affetti da sordità non diagnosticata possono avere manifestazioni di “indifferenza” nei confronti del mondo esterno per molti versi simili a quelle dei bambini con disturbi dello spettro autistico. Pertanto, in caso di atipie comportamentali, mai escludere un problema uditivo, che in alcuni casi può essere associato o esserne addirittura la causa principale. In caso quindi di ritardi del linguaggio o tendenza all’isolamento, è buona regola farsi sempre sorgere un “ragionevole dubbio”. Il pediatra di famiglia dovrebbe sempre sincerarsi circa l’avvenuta esecuzione dello screening uditivo (ormai divenuto obbligatorio in molte realtà territoriali) e, in caso contrario o di risultato dubbio, indirizzare immediatamente il bambino ad un approfondimento diagnostico. Il lavoro d’équipe e la collaborazione con gli specialisti quindi, risulta fondamentale per un buon percorso di diagnosi e riabilitazione precoce».
L’ultima frontiera del trattamento della sordità profonda sono gli impianti cocleari: qual è il meccanismo d’azione e a quale età impiantarli?
«Attualmente, i bambini che nascono con un deficit parziale dell’udito, se identificati precocemente attraverso i test di screening, possono essere efficacemente riabilitati mediante l’applicazione di protesi acustiche. Anche nei casi di deficit totale dell’udito, nei quali il beneficio dalle protesi acustiche è limitato, è oggi possibile intervenire efficacemente attraverso l’impianto cocleare o “orecchio bionico”, una vera e propria “coclea artificiale” che stimola direttamente il nervo acustico. L’impianto cocleare consta di due componenti: una impiantabile e una esterna. La porzione impiantabile consiste in un elettrodo che viene inserito chirurgicamente nella coclea del paziente, così da trovarsi a contatto con le fibre nervose e stimolarle efficacemente. Il dispositivo interno riceve istruzioni su come stimolare dalla componente esterna, o processore del linguaggio. Quest’ultimo è un piccolo “computer” che riceve le informazioni sonore dall’ambiente, le digitalizza, le elabora secondo le istruzioni con cui è stato programmato e le trasmette alla componente interna attraverso un sistema di comunicazione a radiofrequenze.
L’accoppiamento tra le due componenti (l’impianto interno e il processore esterno) è transcutaneo, e avviene pertanto a cute integra, attraverso l’interazione tra due magneti. L’impianto cocleare ha rappresentato una rivoluzione nella terapia della sordità neurosensoriale profonda, sia nei soggetti adulti che hanno perso l’udito nel corso della vita (ossia in epoca post-verbale), che nei bambini nati sordi. Infatti i bambini affetti da sordità profonda che vengano sottoposti a impianto cocleare in età precoce (entro il 2° anno di vita, idealmente tra il 12° e 18° mese di vita) e che ricevano una riabilitazione adeguata, sviluppano abilità uditive e linguistiche in linea con l’età cronologica, senza alcun ritardo rispetto ai loro coetanei normoudenti. Nei pazienti che mostrano un peggioramento progressivo dell’udito, in cui si documenti una resa protesica non più adeguata alle loro esigenze comunicative in occasione dei controlli audiologici periodici, si può comunque proporre l’impianto cocleare con le medesime aspettative anche al di fuori di tale finestra di opportunità (ovvero, entro il secondo anno di vita), purché il periodo di deprivazione uditiva (il lasso di tempo in cui la soglia dell’udito non garantisce un’adeguata esposizione al mondo dei suoni) sia limitata».
di Paola Trombetta