Otto marzo. Una giornata per riflettere. E per agire. Perché i dati non sono incoraggianti. Dal lavoro alla violenza, sono molti i problemi ancora aperti per le donne. Peggiora il “gender gap” in Italia. Il divario di genere fra uomini e donne in opportunità, status, rappresentanza politica, salute e lavoro, segna un vistoso regresso rispetto a un anno fa. Nel 2015 il nostro Paese era al 41° posto e nel 2016 al 50°. Nella classifica globale stilata per il 2017 dal World Economic Forum, l’Italia precipita di ben 32 posizioni crollando all’82° posto su un totale di 144 Paesi presi in esame. La disoccupazione è più alta tra le donne (12,8%) che tra gli uomini (10,9%). E per la parità di genere sul fronte retributivo ci vorranno 217 anni! Numeri che tolgono il fiato. Eppure, il tema della condizione femminile non ha sfiorato neppure marginalmente la campagna elettorale. Mentre continuano i femminicidi (il 76,7%, dati rapporto Eures, compiuti per mano di mariti, fidanzati, o comunque in ambito domestico), nonostante leggi, manifestazioni e battaglie condotte a ogni livello. Nonostante nel 44,6% dei casi le donne avessero denunciato, purtroppo inutilmente, gli uomini da cui avevano subito violenza o minacce. Una ricerca promossa dalla Commissione parlamentare sul femminicidio, presieduta dalla senatrice Francesca Puglisi, ci dice per esempio che almeno il 50% delle denunce di reato contro le donne viene archiviato. E ci sono tribunali dove le assoluzioni dei compagni violenti sfiorano il 44% dei processi.
Di questo quadro ancora nero della società italiana, sintomo del rapporto asimmetrico tra uomini e donne, abbiamo parlato con Marina Calloni, professoressa di filosofia politica e sociale presso il Dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale, Università degli Studi di Milano-Bicocca. Coordina il centro di ricerca dipartimentale EDV Italy Project, Contro la violenza domestica,oltre che dirigere un corso di perfezionamento su “La violenza contro donne e minori: conoscere e contrastare il fenomeno”.
A che punto siamo con i diritti delle donne in Italia?
«Se guardiamo l’andamento secondo una prospettiva storica, perlomeno a partire dal secolo scorso, possiamo dire che la condizione delle donne italiane è senza alcun dubbio migliorata. Eppure il nostro Paese è ancora lontano dal raggiungere la piena parità fra uomini e donne. Le donne hanno corso molto, hanno raggiunto posizioni che prima non avevano. Gli uomini fanno invece molta fatica a tenere il passo coi tempi, con i cambiamenti sociali, le abitudini domestiche, le relazioni private. Da qui la violenza per mantenere un potere che vedono traballare, senza riuscire a capire che non esiste più solo un tipo di mascolinità, assertiva e prevaricatrice. Le cose stanno cambiando con velocità, nonostante molte resistenze e ostacoli. Sulla carta le donne hanno in Italia tutti i diritti possibili. Possiamo godere di convenzioni internazionali contro ogni forma di discriminazione, di diritti europei per l’uguaglianza, di una carta costituzionale che prevede la parità. Così come abbiamo ottime norme contro la violenza di genere (legge 119), lo stalking e per l’allontanamento del coniuge violento. Si tratta di leggi che non vengono però rispettate e applicate come dovrebbero. Una parità formale esiste, ma il problema è un altro: si tratta della perpetuazione di retaggi culturali ancora ben radicati, di mentalità patriarcali, che nel concreto impediscono di esercitare i diritti riconosciuti. Bisogna dunque declinare nella vita reale, nei linguaggi, nei pensieri, nelle azioni della politica quanto raggiunto con molte battaglie sulla carta. Un esempio: le donne ora vanno in pensione più tardi, ma all’aumento dell’età pensionabile non è corrisposto un miglioramento dei servizi per la cura intergenerazionale, dai figli ai nipoti, agli anziani. Se è giusto che le donne lavorino di più, è altrettanto fondamentale che vengano poste nella condizione di farlo, istituendo adeguati servizi di cura».
Un primo obiettivo?
«Lavoro e occupazione sono tra i temi più urgenti da affrontare. Che le donne siano ancora penalizzate non è uno stereotipo, ma una realtà che emerge dai dati. Secondo Eurostat, le donne in Italia occupate e salariate sono solo il 48% (dopo di noi c’è solo la Grecia al 42%). Inoltre il 60,5% di chi non cerca più un’occupazione è rappresentato da donne. Credo che lo snodo fondamentale sul quale ogni donna debba costruire autonomia e libertà sia proprio il lavoro. Che è fondamentale anche per uscire dalla spirale della violenza domestica. Per questo è importante sostenere l’occupazione e l’imprenditorialità femminile. Parallelamente, occorre agire per colmare il divario retributivo. Le donne guadagnano il 23% in meno degli uomini. È inaccettabile che siano retribuite meno degli uomini anche nel caso di pari lavoro. “È il più grande furto della storia”, è la denuncia dell’Onu. Per risolvere questa situazione occorre agire anche su altri fronti: ridurre lo svantaggio retributivo derivante dal fatto che le donne lavorano spesso in settori in cui le retribuzioni sono più basse, vengono promosse meno di frequente, usufruiscono più spesso di interruzioni nel corso della loro carriera professionale dovute anche alle gravidanze e svolgono un maggior numero di attività non retribuite, oppure lavori in nero, senza contribuzioni assicurative. Lavoratrici discriminate che si traducono in pensionate svantaggiate. All’aumento dell’età pensionabile per le donne non è corrisposto un miglioramento dei servizi per la cura intergenerazionale. Vi è inoltre un problema che riguarda la salute delle pensionate: la speranza di vita per le donne è di 85 anni, a fronte degli 80 anni per gli uomini. Uno scarto di età che implica una maggiore incidenza di malattie legate all’invecchiamento. Donne anziane si trovano quindi spesso a rinunciare a cure adeguate, per via delle esigue pensioni, decisamente inferiori a quelle degli uomini».
E se la donna lavora, la maternità resta ancora un discrimine pesante. Dati Istat: donne, in 25mila lasciano il lavoro per un figlio. E in 5,5 milioni rinunciano alla maternità. Con le dimissioni delle neomamme che volano del 44 per cento.
«Le donne continuano ad avere enormi problemi nel trovare una sistemazione dopo la gravidanza: o non vengono più riassunte, oppure vengono a ricoprire posizioni inferiori. Sarebbero dunque necessarie politiche anti-discriminazione per il rientro al lavoro. Anche questa è una violenza di genere».
Eppure sul totale delle ore lavorate, a casa e sul mercato, le donne complessivamente lavorano più degli uomini.
«L’Italia continua a essere un Paese caratterizzato da un’elevata asimmetria nei ruoli nella coppia, tanto nelle occupazioni domestiche quanto nei lavori di cura. Nonostante venga riconosciuto per legge ai padri un periodo di assenza retribuita dal lavoro dopo la nascita del figlio o per motivi familiari, sono ancora la minoranza a farne uso. Per evitare conflitti nella coppia e in mancanza di genitori attivi che abitino vicino, si ricorre molto spesso all’aiuto di lavoratrici domestiche per la pulizia della casa e a babysitter per la cura dei figli, visto la carenza degli asili. Alla fine, del suo stipendio rimane ben poco».
Cosa bisognerebbe fare sotto il profilo culturale?
«Tutto. A partire dalla scuola, ovviamente. E dai media. Cercare di veicolare quanto più possibile un’immagine della donna diversa dallo stereotipo, dando risalto e dignità ai molteplici modelli femminili esistenti, con la coesistenza, in una stessa persona, di istanze diverse. Educare. Se le mamme per prime educassero le figlie a darsi valore e a seguire le proprie aspirazioni senza modelli prefissati, e i figli al rispetto delle donne avremmo già compiuto un passetto avanti».
Ha ancora un senso celebrare l’8 marzo e cosa festeggiare?
«Sì, se costituisce un invito ad andare avanti, nella constatazione che bisogna ancora lottare per il rispetto di diritti acquisiti sulla carta. Noi donne siamo resilienti: sappiamo reagire anche di fronte ad apparenti sconfitte. E questo vale anche per le giovani generazioni».
di Cristina Tirinzoni