L’oncologia è sempre più “donna”

Professione oncologa: impegnativa e molto dura, soprattutto dal lato umano ed emotivo. Comunicare una diagnosi di tumore è un momento difficile e particolarmente delicato. E la sensibilità femminile forse è un elemento a favore. Tra gli specialisti oncologi, quasi la metà sono donne. Ma le possibilità di arrivare ai vertici di questa professione sono ancora monopolio maschile. Per smuovere questa situazione e dare una svolta decisiva alla professionalità delle oncologhe, è nata la Rete “Women For Oncology Italy” (W4O Italy), che nasce come spin-off dell’omologa organizzazione internazionale di ESMO (European Society for Medical Oncology).
Questo progetto è stata voluto e avviato da nove oncologhe italiane (Marina Garassino, Rossana Berardi, Fabiana Cecere, Rita Chiari, Valentina Guarneri, Nicla La Verde, Laura Locati, Domenica Lorusso, Erika Martinelli) che, ciascuna nel proprio ambito, rappresentano l’eccellenza nel nostro Paese in questa specializzazione.

Ne abbiamo parlato con la professoressa Valentina Guarneri, oncologo medico nel reparto di Oncologia Medica 2 dell’Istituto Oncologico Veneto, dove il 70% delle specialiste sono donne.

 Cosa si propone e da chi è formata questa organizzazione?
«Il progetto W4O Italy è rivolto in particolare alle oncologhe, tra i 35 e 55 anni, nell’età ottimale della loro carriera, per dare un contributo decisivo al loro sviluppo professionale attraverso un percorso di coaching. L’obiettivo del progetto è di sostenere la carriera della donna-medico in oncologia, fornendo strumenti utili a superare le difficoltà professionali e personali legate al genere femminile per formare una futura classe dirigente al femminile più numerosa e preparata».

Esiste ancora il monopolio maschile nella professione dell’oncologo?
«Purtroppo direi di sì, soprattutto per quanto riguarda i vertici, e non solo in oncologia. L’attuale modello di gestione è generalmente in mano agli uomini, che ovviamente hanno esigenze diverse dalle colleghe donne. Organizzare riunioni di lavoro alle 19 di sera sicuramente mette più in difficoltà una professionista donna, su cui solitamente ricade anche la responsabilità della famiglia e dei figli. E l’ambiente degli ospedali non favorisce certo le donne: non ci sono asili nido o, se ci sono, non coprono certo il fabbisogno. Basterebbe entrare in un’ottica organizzativa differente. Purtroppo sono rari i dirigenti che tengono in considerazione esigenze diverse dalle loro».

Nel suo caso, quanto è costato l’aver raggiunto una posizione di responsabilità nel suo ospedale?
«In termini di qualità di vita e di rinuncia agli affetti sicuramente il costo c’è. Fortunatamente ho il pieno appoggio di mio marito, che fa il mio stesso lavoro. Ci troviamo a lavorare in città diverse e ci vediamo nel fine settimana. Alla fine questo consente una divisione tra lavoro e vita privata che, nelle difficoltà di una gestione non tradizionale, ha i suoi aspetti positivi. Certo è necessario darsi delle priorità».

L’approccio di una donna ai pazienti oncologici è differente da quello dell’uomo?
«Ovviamente esiste una “diversità di genere” nell’approccio al paziente, che a mio avviso deve essere valorizzata. Nella mia esperienza professionale, occupandomi prevalentemente di tumori femminili, noto che le pazienti sono molto a proprio agio nel rapporto con un’oncologa. Forse perché ci immedesimiamo di più rispetto ai colleghi uomini, soprattutto nella valutazione delle conseguenze della malattia e delle terapie. Si crea spesso una “complicità di intenti” nell’affrontare i problemi che la terapia potrebbe provocare, come le conseguenze della chirurgia, o della chemioterapia. Ad esempio la perdita dei capelli, che spesso è vissuta in modo drammatico dalle donne. Per questo abbiamo attivato nel nostro Istituto un programma per utilizzare appositi caschi che rallentano e a volte evitano la caduta dei capelli. Devo dire che questo programma è stato fortemente voluto dal mio direttore, che è un uomo. In generale comunque l’attenzione agli aspetti psicologici relativi alle conseguenze dei trattamenti è sempre molto alta, ma è diverso il modo in cui medici uomini e donne la esprimono».

Nella sua pratica clinica le pazienti preferiscono un medico donna?
«Ovviamente non è possibile fare un confronto formale. Come dicevamo prima, esistono differenze di genere nell’approccio e nella comunicazione che l’esperienza aiuta a valorizzare. Limitandomi alla mia esperienza personale, quello che forse aiuta è una maggiore flessibilità e una maggiore confidenza delle pazienti ad esporci anche problematiche meno “prioritarie”, come ad esempio la possibilità di tingersi i capelli. Oppure spostamenti di orari/appuntamenti, magari per la gita dei bambini… Ricordo una mia paziente di 70 anni, con tumore metastatico, che mi aveva addirittura chiesto di spostare l’orario della chemioterapia perché doveva fare acqua-gym col marito. Questo episodio mi ha lasciato un insegnamento profondo: non basta curare un tumore, ma occorre “prendersi cura” della persona malata e aiutarla a gestire una vita il più possibile “normale”, assecondando dove è possibile le sue esigenze. La paura più grande che ci comunicano le pazienti non è quella di morire, ma di dover modificare le abitudini di vita, di dover rinunciare al lavoro, al tempo libero da trascorrere con la famiglia, perché temono che le terapie siano troppo aggressive. Sta alla sensibilità del medico capire questo e agire di conseguenza, immedesimandosi nelle esigenze della paziente. E, forse, un medico donna può farlo al meglio!».

Esistono novità terapeutiche per il tumore al seno?
«Certamente la ricerca ha fatto passi da gigante e il tumore al seno oggi si cura nel 90% dei casi, anche grazie alle terapie innovative. Nelle situazioni di malattia in fase avanzata, i farmaci biologici e le nuove terapie ormonali consentono di ritardare e ridurre l’uso della chemioterapia, ancora molto temuta dalle donne per i possibili effetti collaterali. L’immunoterapia è poi molto promettente nei  tumori “triplo negativi”, tra le forme più aggressive di tumore mammario proprio per la mancanza di una terapia “target”. E’ quindi oggi possibile rendere il tumore sempre più una “malattia cronica”. Per questo le pazienti devono essere “prese in carico” dall’oncologo che non può limitarsi a prescrivere farmaci, ma deve seguire la donna nel percorso della malattia, che potrebbe anche durare per tanti anni».

di Paola Trombetta

 

Antonella Brunello a capo di una Task force europea sui tumori degli anziani

È un’oncologa dell’Istituto Oncologico Veneto: Antonella Brunello, originaria di Bassano del Grappa e specialista in sarcomi, tumori dell’osso nei pazienti anziani presso l’Oncologia Medica 1 dell’Istituto, è stata scelta per guidare a Bruxelles la Task force dei pazienti anziani “Cancer in Elderly” all’interno dell’Organizzazione europea per la ricerca e la cura del cancro (European Organization for Research and Treatment of Cancer – EORTC), per la quale collaborava da più di 10 anni. Un incarico di prestigio che ricoprirà fino al 2020. «Obiettivo della Task force “Cancer in Elderly” di EORTC è quello di portare l’attenzione sulle neoplasie dell’anziano», spiega l’oncologa dello IOV. «Purtroppo le persone avanti negli anni vengono attualmente poco considerate all’interno degli studi clinici: gli anziani sono arruolati raramente perché presentano un quadro clinico con comorbidità complesse. La scarsa partecipazione degli anziani negli studi fa registrare poche notizie sull’efficacia dei farmaci da usare nella pratica clinica quotidiana. La Task force che devo coordinare vuole proprio sviluppare e condurre la ricerca clinica con il preciso coinvolgimento di pazienti anziani, per identificare i migliori percorsi terapeutici, minimizzando le tossicità e gli eventi avversi per un miglior trattamento dei singoli casi». Come è nato il suo interesse per le patologie oncologiche delle persone anziane? «Il paziente anziano mi ha attratto fin da quando ero in specialità, forse per la sua profonda complessità e vulnerabilità.  Durante la scuola di specializzazione ho trascorso un periodo di formazione e ricerca presso il Lee Moffitt Cancer Center, in Florida, nell’unità di oncologia geriatrica, che ancora oggi è considerata una delle più avanzate al mondo. E oggi la mia scommessa è l’attenzione a queste patologie, che stanno diventando sempre più “croniche” anche negli anziani e la ricerca di nuove cure sempre più personalizzate e adatte alla situazione clinica di questi pazienti».  P.T.

 

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