Un tempo veniva chiamata “cirrosi biliare primitiva”, perché molti pazienti soffrivano appunto di cirrosi epatica. Ma questa in realtà era una conseguenza, che poteva manifestarsi dopo molti anni dall’insorgenza della malattia, il cui cambio di nome è stato sancito dalle ultime Linee guida europee, anche per superare lo stigma che la parola “cirrosi” porta con sé, facendo pensare all’alcolismo. Oggi si parla infatti di Colangite biliare primitiva (CBP), una malattia epatica rara, cronica e di origine autoimmune, che colpisce prevalentemente le donne (nove su 10).
«In generale le malattie autoimmuni si sviluppano più spesso nelle donne, anche se le ragioni sono ancora poco chiare», fa notare Vincenza Calvaruso, ricercatrice presso il Dipartimento Biomedico di Medicina interna e specialistica dell’Università degli Studi di Palermo. «Sicuramente gli ormoni potrebbero avere un ruolo importante, anche se dopo i 50 anni non c’è più alcuna correlazione. Oggi la ricerca punta sulla genetica, con l’individuazione sul cromosoma X di geni che potrebbero essere correlati alla comparsa di malattie autoimmuni. Nonostante la malattia colpisca una percentuale di pazienti ancora in età fertile, non ci sono evidenze scientifiche che questa possa avere un impatto negativo sulla possibilità di rimanere incinta o portare a termine con successo una gravidanza. Chiaramente nei casi in cui la malattia è tenuta sotto controllo e non ci siano danni epatici dovuti all’insorgenza di cirrosi».
«Con le attuali tecniche diagnostiche, la CBP può essere rilevata precocemente e la fase avanzata, con cirrosi epatica, si ha per fortuna solo in una minoranza di casi», spiega Pietro Invernizzi, professore associato in Gastroenterologia alla Facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca e direttore dell’Unità Operativa di Gastroenterologia e Centro per le Malattie Autoimmuni del Fegato, dell’Ospedale San Gerardo di Monza. «Una delle maggiori difficoltà legate a questa malattia sono appunto i tempi della diagnosi, poiché negli stadi iniziali i sintomi sono assenti o lievi, soprattutto stanchezza, prurito, problemi digestivi e gonfiori addominali, e la malattia può essere scoperta dalla presenza di alterazioni degli indici del fegato nelle analisi del sangue eseguite di routine. Il percorso per arrivare alla diagnosi però è piuttosto lungo e difficoltoso. Solo in 1/3 dei casi il paziente si rivolge subito al medico, mentre spesso (in oltre il 40% dei casi) attende almeno un anno. In oltre la metà dei casi, il medico di riferimento è quello di famiglia; in 1/3 dei casi è invece il gastroenterologo/epatologo. Tra la prima visita e la diagnosi passano in media circa due anni o anche di più».
Un recentissimo studio italiano ha fornito il primo dato epidemiologico nel nostro Paese, secondo il quale la prevalenza di questa patologia del fegato è di 28 casi su 100mila (circa 13mila persone), con un’incidenza di 5,3 casi su 100mila l’anno. L’Italia ha un ruolo importante nello studio della malattia. Si è recentemente costituito il “PBC Group Study” con l’obiettivo di creare il Primo Registro Nazionale dei Pazienti con il coinvolgimento di tre Centri Italiani (San Gerardo di Monza, San Paolo di Milano, Policlinico di Padova). Il nostro Paese ha avuto, inoltre, un ruolo importante nella stesura delle nuove Linee guida sulla CBP che riguardano soprattutto il rischio di malattia, il riconoscimento di nuove strategie terapeutiche e l’auspicio di creare nuovi percorsi diagnostico-terapeutici.
I farmaci innovativi, tra cui l’acido obeticolico (creato e prodotto nei laboratori di Intercept Italia a Perugia), attualmente a disposizione anche in Italia, rappresentano un’opportunità di cura molto efficace. «Rispetto alla terapia tradizionale a base di acidi biliari, come l’acido ursodesossicolico e l’acido tauro-ursodesossicolico, questi nuovi farmaci agiscono a livello immunologico e metabolico e sono in grado di prevenire il formarsi di fibrosi epatica, ma soprattutto migliorano il flusso biliare del fegato, prevenendone l’accumulo e il ristagno all’interno dell’organo», puntualizza il professor Invernizzi. «Benché siano stati fatti passi importati nella diagnosi e nel trattamento di questa patologia, è necessario ancora lavorare per definire un network di specialisti che, anche in collaborazione con il medico di famiglia, possano aiutare i pazienti a non perdere tempo prezioso prima di una diagnosi certa e avere l’opportunità di accedere a una terapia tempestiva, necessaria per migliorare la prognosi e rallentare l’evoluzione della malattia».
di Paola Trombetta