Secondo l’Oms, entro il 2030 la depressione sarà la malattia cronica più invalidante. Raccontarla non è facile. Si tratta una patologia silenziosa e subdola, che colpisce in prevalenza le donne, di tutte le età e condizioni sociali. Simona Vinci, 48 anni, scrittrice e traduttrice, Premio Campiello 2016 con La prima verità, adesso in Parla, mia paura (Einaudi Stile Libero) rompe il silenzio e racconta com’è riuscita a sconfiggere depressione e attacchi di panico vissuti qualche anno fa. Si affida alle parole perché “le parole non mi hanno mai tradita”, offrendo la sua testimonianza ai lettori nella convinzione che raccontare l’esperienza della paura, come quella totalizzante e paralizzante che sono gli attacchi di panico, possa essere un modo per cominciare a smontarla.
Dopo tanti romanzi, scrive di se stessa. Dei suoi attacchi di panico. E dei demoni della depressione. Si espone in prima persona, lei che ha sempre avuto un alone di riservatezza. Quanto è difficile raccontare una storia così personale, mettendosi totalmente a nudo?
«Scrivere è stato difficile, primo perché mi ha costretta a ri-narrare momenti della mia vita che mi hanno procurato dolore e soprattutto è stato difficile scegliere di farlo: raccontare di me aveva un senso? La domanda che mi sono posta è: queste pagine potrebbero essere in qualche modo utili a qualcuno oltre che a me? La risposta che mi sono data è sì, naturalmente, perché le questioni che ho affrontato non sono estreme, né paradigmatiche però in qualche modo appartengono alla vita di moltissime persone che non trovano le parole per esprimere certe difficoltà e si sentono sole».
Cos’era per lei la paura?
«Tutto: orrore e bellezza. Perché la paura ha anche un lato affascinante, finché non diventa pervasiva e non ti impedisce di vivere normalmente. Avevo tachicardia, lampi visivi, senso di soffocamento e paura di impazzire, come se il corpo stesse per esplodere. Mi accadeva di giorno (e questo mi impediva di vivere una vita normale), ma anche di notte, quando ero a letto, all’improvviso».
Milioni di italiani soffrono di disturbi legati alla depressione e agli attacchi di panico: a suo avviso l’informazione su questi temi è adeguata?
«No, è molto superficiale, anche perché, per chi non l’ha mai provato, un attacco d’ansia o di panico è una sciocchezza, da fuori non si vede, non si percepisce e non è diagnosticabile quindi, per chi ne soffre, la fatica è doppia: affrontarli, cercare di “sopravvivere” e farsi comprendere da chi ti vive accanto e minimizza. Il tentativo era proprio questo, partire da “io” e arrivare al “tu”, al noi. Spero di esserci in parte riuscita».
In Italia si parla troppo poco di depressione. Perché?
«Il perché lo sappiamo tutti: in questa società ci si vergogna di non essere al top, sempre vincente, bello, allegro e produttivo. Essere depressi può costare molto caro, in famiglia, a scuola, sul lavoro, nelle relazioni, ma costa ancora più caro, secondo me, mentire e nascondersi fino a che non si crolla».
L’ansia, il panico, la depressione spesso restano muti: forse perché il più delle volte da fuori non si vede, chi li vive si sente incapace di chiedere aiuto.
«Lo sono stata anch’io. Mi sono dibattuta in una ragnatela appiccicosa e tagliente senza trovare la forza di chiedere aiuto. Anch’io volevo farcela da sola, liberarmi da sola, o sola o niente. Eppure, un giorno è successo, un giorno che non ce la facevo più ho alzato lo sguardo a cercare gli occhi di qualcuno e chiedere: mi aiuti? Scoprii che gli esseri umani possono incontrarsi anche se non si conoscono, che fidarsi e affidarsi è quasi sempre l’unica cosa sensata da fare. Da quel momento, molto è cambiato. Piano piano ho imparato che potevo rischiare di mostrare la mia vulnerabilità, che non tutti, questo è ovvio, l’avrebbero compresa, che non tutti mi sarebbero stati accanto, ma non tutti non vuole dire nessuno, vuol dire, qualcuno sì, qualcuno no».
A più riprese ripete che l’unico ragionevole consiglio possibile a chi soffre di questa malattia è quello di non nascondersi…
«Sarà perché scrivo, e le parole sono il pane e l’acqua della mia vita da sempre. È grazie alle parole – quelle che ho letto, quelle che ho scritto, quelle che ho ascoltato e quelle che ho pronunciato – se sono ancora viva».
Ci racconta di un qualche piccolo rito rassicurante, pensiero magico per tenere a bada la paura?
«La natura, i giardini, il contatto con gli elementi naturali e il pensiero, ma questo non potrei offrirlo come antidoto a nessuno, vale solo per me».
Si possono vincere gli attacchi di panico e depressione senza psicofarmaci?
«Non c’è una risposta unica e non mi permetterei mai di darla. Nel mio caso, per quella che è stata la mia esperienza, il supporto degli ansiolitici in momenti particolarmente duri è stato importante, ma sarebbe stato totalmente inefficiente senza andare alla radice della domanda che mi poneva la mia paura. La paura, quella generalizzata degli attacchi di ansia e panico, è un sintomo che parla a ognuno di qualcosa di diverso e ognuno deve fare il personale viaggio che porta a scoprire tante questioni irrisolte, diverse per ognuno; sottovalutare questa domanda, cercando soltanto di zittirla, è una possibilità che si perde di capire qualcosa di fondamentale su noi stessi e il nostro modo di affrontare la vita».
Nel suo caso, c’è un lungo percorso di cura attraverso l’analisi, e c’è una tappa liberatoria con la chirurgia plastica per ritrovare la propria identità femminile in un corpo in cui non si riconosceva più…
«E’ una parte del libro a cui tengo molto. La chirurgia estetica è un tema sul quale si incistano sempre malintesi e giudizi etici prevenuti. Ho voluto affrontarlo per parlare di come sia stretto il rapporto tra la percezione del proprio corpo e il benessere psichico, tentando di raccontare qualcosa di così umano come il bisogno di stare bene nella propria pelle a prescindere dai modelli estetici dominanti. La chirurgia plastica è un’arte nobile che dovrebbe essere al servizio di tutti coloro che ne hanno bisogno per stare in pace con se stessi e non una dolorosa e dispendiosa scorciatoia per assomigliare a qualcun altro o a una versione ringiovanita di noi stessi: il tempo passa ed è un bene che sia così, tanto immortali – in questa particolare incarnazione umana, almeno! – non lo diventiamo comunque e ricordarsene non fa male».
di Cristina Tirinzoni