Stili di vita scorretti, scarsa attività fisica, alimentazione ricca di grassi: sono le premesse per lo sviluppo di malattie quali il diabete e l’obesità, un binomio definito “diabesità”, particolarmente diffuso tra gli abitanti delle città. Il 65% delle persone con diabete vive in ambiente urbano e il 44% dei casi di diabete di tipo 2 è riconducibile all’obesità e al sovrappeso, malattie legate a stili di vita scorretti. Questi dati diventano ancora più allarmanti se si considera che il rischio di malattia cardiovascolare è in aumento, specie nei centri urbani appunto, e che una persona con diabete e sovrappeso ha un rischio raddoppiato di morire entro dieci anni rispetto a una persona con diabete e peso normale. Un rischio che non risparmia le donne. Su questi argomenti si sono confrontati esperti e studiosi, in occasione dell’appuntamento annuale, l’11°, dell’Italian Diabetes & Obesity Barometer Forum che si è da poco concluso a Roma, promosso da Italian Barometer Diabetes Observatory (IBDO) Foundation, Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”, Health City Institute, Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane, I-Com – Istituto per la Competitività e Cities Changing Diabetes, con il contributo non condizionato di Novo Nordisk. Nell’occasione, abbiamo intervistato la dottoressa Concetta Suraci, diabetologa e presidente di Diabete Italia, il network di cui fanno parte associazioni di Medici diabetologici, Medici di Medicina Generale, di Operatori sanitari e di Pazienti.
L’ultima edizione degli Annali AMD (Associazione Medici Diabetologi) riporta dati di un incremento dell’obesità e dell’incidenza di diabete nelle donne, dopo i 65/70 anni. Come si spiega questo aumento?
«Anche se le donne sono colpite in media da questa patologia un po’ meno degli uomini (45% rispetto al 55%), in realtà dopo i 65 anni la percentuale si innalza (circa 65%). Innanzitutto perchè le donne vivono più a lungo. E poi aumentano di peso più degli uomini, soprattutto dopo la menopausa quando cessano i benefici degli estrogeni. In questi anni aumenta anche il rischio cardiovascolare, particolarmente correlato al diabete e alla vita sedentaria tipica dell’ambiente urbano. Le donne con diabete tipo 2 hanno anche più alti livelli di colesterolo LDL e un peggiore profilo cardiovascolare, con un rischio raddoppiato, rispetto agli uomini, di mortalità».
È vero che le donne diabetiche hanno una minore aderenza alle terapie rispetto agli uomini e questo potrebbe spiegare in parte un peggiore controllo della malattia?
«Diversi studi internazionali confermano questo dato: le donne diabetiche si curano meno e sono seguite con minore attenzione rispetto agli uomini. In Italia il dato emerso (Annali di Genere AMD) è invece che le donne vengono curate con molta attenzione, ma i risultati non sono soddisfacenti: non vengono raggiunti gli obiettivi. Probabilmente l’aderenza alle terapie non è ottimale: le donne, intente ad accudire gli altri, più spesso si trascurano. Lo stesso si registra per il controllo delle patologie cardiovascolari e questo potrebbe spiegare un’incidenza maggiore di decessi. Le donne inoltre hanno maggiori problemi di sovrappeso e obesità, che sono ulteriori fattori di rischio. Potrebbe esserci anche una diversa risposta “genetica” ai farmaci (ad esempio le statine o l’aspirina): la maggior parte sono infatti stati studiati sugli uomini, per cui abbiamo poche notizie specifiche al femminile. Nelle donne l’eccesso di peso genera una maggiore insulino-resistenza, che potrebbe interferire con l’efficacia dei farmaci. Spesso si registrano anche valori di emoglobina glicata mal controllati, nonostante una terapia corretta. Nelle donne più giovani, con diabete tipo 1 (che richiede terapia insulinica), si possono registrare episodi di riduzione arbitraria delle dosi di insulina, nel timore di un aumento del peso corporeo».
Oltre alle malattie cardiovascolari, ci sono altre patologie correlate al diabete, in particolare nelle donne?
«Sicuramente le complicanze oculari (retinopatia), quelle renali, l’osteoporosi. Le donne poi soffrono più degli uomini di malattie auto-immuni e le diabetiche tipo 1, con una certa frequenza, presentano anche tiroidite cronica e celiachia».
Un riferimento a parte merita il diabete in gravidanza, che deve essere sempre ben controllato per evitare complicanze, sia alla madre che al bambino…
«Il 7-10% delle donne in gravidanza può sviluppare un diabete gestazionale, che per definizione inizia e finisce con la gravidanza, ma rappresenta un grosso fattore di rischio per l’insorgenza di diabete tipo 2. Entro 5/10 anni dal parto, il 35-50% delle donne possono manifestare un diabete tipo 2. Corretta alimentazione, stile di vita regolare, attività fisica potrebbero scongiurare il rischio. La predisposizione familiare e il sovrappeso giocano però a sfavore, ma un attento follow-up (curva glicemica dopo 6 settimane dal parto e controlli periodici della glicemia) è indispensabile per la sorveglianza del rischio. Se il diabete gestazionale non viene adeguatamente compensato con giuste dosi di insulina, potrebbe comportare anche malformazioni al feto (cardiache e neurologiche), rischi di macrosomia nel bambino, con ricorso al parto cesareo e future problematiche di sovrappeso del bambino stesso. Nel caso di diabete gestazionale, l’unica terapia, quando la sola dieta non è sufficiente, è quella insulinica che deve essere costantemente monitorata dal team diabetologo-ginecologo. Analogo controllo e precauzioni per le donne già diabetiche che affrontano una gravidanza. In questi casi si tende a mantenere l’emoglobina glicosilata (parametro di misurazione della glicemia) con un valore di un punto inferiore alla norma (6-6,5%) e controllare il peso della gestante che non dovrebbe superare i 7-10 chili».
Per la gravidanza, ma in generale per le donne che sono più irregolari nell’aderenza alle terapie, le nuove formulazioni di insulina “long acting” e “short acting” potrebbero rappresentare una svolta nella gestione della malattia?
«Si tratta di due tipi diversi di formulazioni, che sono però complementari. L’insulina “long acting” viene somministrata una sola volta al giorno e rappresenta la dose basale. Quella “short-acting ”, invece, deve essere somministrata come bolo ai pasti perché ha un’azione molto rapida ed entra subito in circolo. È da poco in commercio una formulazione a effetto ancora più rapido (fast-acting), che può essere somministrata anche subito dopo i pasti (fino a 20 minuti dopo). Più pratica da usare, permette di superare il disagio di dover assumere insulina sempre prima dei pasti. Per la praticità d’uso, potrebbe forse migliorare l’aderenza, in particolare nelle donne».
di Paola Trombetta