A Nadia Murad, giovane coraggiosa donna irachena della minoranza yazida, vittima delle violenze dell’Isis con altre 3mila donne e bambine yazide, violentate e schiavizzate, è giusto pensare proprio nella Giornata del 25 novembre contro la violenza sulle donne. Perché il Premio Nobel per la pace 2018 assegnatole (ex aequo con il ginecologo congolese Denis Mukwege che si è tanto prodigato contro la violenza alle donne) e che le sarà consegnato a Oslo il 10 dicembre, è un grido contro gli stupri usati come arma sistematica di guerra. Un’atrocità consueta su tutti i campi di battaglia del mondo. L’arma di guerra per eccellenza, utilizzata per uccidere le donne nella loro dignità di esseri umani. Un fenomeno antico e tragicamente attuale.
Secondo i dati rilasciati dalle Nazioni Unite, in Ruanda, durante il genocidio protrattosi per tre mesi nel 1994 furono stuprate tra le 100mila e le 250mila donne, più di 60mila durante la Guerra civile in Sierra Leone (1991-2002), più di 40mila in Liberia (1989-2003), fino a 60mila nella ex Yugoslavia (1992-1995), e almeno 200mila nella Repubblica Democratica del Congo durante gli ultimi 12 anni di guerra. Fino alle recenti terribili violenze in Somalia, Nigeria, India, Birmania, Darfur e le terre curde occupate dall’ISIS. Gli stupri nelle zone di guerra sono in aumento anche tra le bambine. In Congo i gruppi armati terrorizzano le donne, violentandole davanti a tutti. Lo stupro viene utilizzato perché, se si vuole, è facile da nascondere e colpisce i più deboli. La paura, la vergogna e la semplice lotta per la sopravvivenza fanno sì che molte vittime non osino denunciare quanto hanno subito. E anche i cosiddetti “stupri di pace”, ad opera delle “forze di peacekeeping” come denuncia Amnesty International. Ancora, possiamo ricordare le 223 studentesse rapite in Nigeria dai miliziani islamisti di Boko Haram: quelle sopravvissute ai terroristi stuprate dai soldati che le hanno liberate. Stupri che rimangono impuniti.
Sono passati 25 anni dall’inizio dell’orrore in Bosnia Erzegovina. Eppure le migliaia di donne e ragazze il cui corpo è trasformato in campo di battaglia, violentate e torturate in quelli che sono stati poi chiamati, appunto, i “campi degli stupri”, stanno ancora aspettando giustizia. I processi per accertare le responsabilità vanno a rilento. E ottenere un aiuto economico o psicologico è ancora troppo difficile. Lo denuncia un nuovo report di Amnesty International. E fanno il giro del mondo ogni giorno notizie di nuovi orrori nei campi profughi in Libia. Se il mondo non conosce, il mondo non può cambiare.
“Spero che questo Premio aiuti a portare giustizia per tutte quelle donne che hanno subito violenza sessuale durante i conflitti armati”, ha dichiarato Nadia, vittima e al contempo impegnata nella denuncia degli stupri e della tratta di donne, anche bambine, compiuti dall’Isis. Ma il suo messaggio è soprattutto un pressante invito a non lasciarsi sopraffare dalla violenza e a denunciare conservando intatta, sempre e comunque, la dignità della propria persona.
Il sogno di Nadia Murad, che oggi ha 25 anni, era di finire gli studi e aprire un salone da parrucchiera, nel suo villaggio, nell’Iraq settentrionale, dove avrebbe acconciato i capelli delle spose nel loro giorno più speciale. Invece il 3 agosto 2014 la tranquilla esistenza di Nadia viene improvvisamente sconvolta: i militanti del sedicente Stato Islamico irrompono nel suo villaggio natale, portandosi dietro una scia di sangue e di massacri indiscriminati, volti a sterminare la minoranza religiosa yazida. In poche ore incendiano le case, uccidono a colpi di kalashnikov tutti gli uomini che riescono a trovare (inclusi sei dei fratelli di Nadia), e donne yazide (tra queste anche la madre di Nadia) massacrate perché ritenute troppo vecchie per essere schiavizzate; e rapiscono le donne più giovani che, una volta caricate su un camion dai vetri oscurati, vengono portate a Mosul dove i militanti dell’Isis avevano la loro roccaforte.
Per tre mesi, Nadia è stata nelle loro mani come “bottino di guerra”, insieme a migliaia di altre giovani yazide, molte delle quali minorenni. Dopo essere stata venduta come schiava sessuale, durante la prigionia Nadia, con migliaia di altre giovani donne, è stata sottoposta a continui abusi, torturata con mozziconi di sigarette, stuprata a più riprese.
“A un certo punto non resta altro: gli stupri diventano la tua normalità. Non sai chi sarà il prossimo ad aprire la porta per abusare di te, sai solo che succederà e che domani potrebbe essere peggio”, racconta Nadia nel libro L’ultima ragazza, (Mondadori) che vanta anche la prefazione del suo avvocato Amal Alamuddin Clooney, in cui ripercorre l’orrore vissuto. Un inferno che finisce quando riesce miracolosamente a fuggire, approfittando di una distrazione dei suoi aguzzini. Un giorno, racconta, il suo carceriere per disattenzione non ha chiuso a chiave la porta della casa di Mosul in cui era prigioniera, così ha colto l’occasione ed è fuggita, trovando in sé un insperato coraggio. Vaga come in trance in una Mosul sospesa nel terrore, finché si decide a bussare a una porta qualunque. La famiglia (sunnita) che aprirà quella porta la ospiterà e l’aiuterà a raggiungere un campo profughi a Dohuk, nel Kurdistan irakeno e poi a emigrare in Germania grazie al sostegno della ong Yazda, che fornisce aiuto e supporto alle vittime sopravvissute dell’Isis.
Oggi Nadia è una donna libera e sta portando avanti la sua personale battaglia contro le violenze dell’Isis, raccontando con coraggio al mondo quanto ha provato sulla propria pelle, non per invocare vendetta bensì per chiedere giustizia. “La giustizia è fondamentale”, ha dichiarato. “Gli stupratori operano nell’impunità totale. Sogno che un giorno tutti i militanti risponderanno dei loro crimini. Dovrebbero andare tutti a processo di fronte al mondo intero, non solo i capi come Abu Bakr al-Baghdadi, ma tutte le guardie e i proprietari di schiave”.
Diventata ambasciatrice di buona volontà delle Nazioni Unite, Nadia chiede da anni di intervenire, davvero, affinché si presti maggiore attenzione al dramma di migliaia di donne, alle loro sofferenze, e ci si adoperi perché possano ricevere un supporto adeguato e percorsi mirati che le aiutino a superare il trauma dello stupro, da un punto di vista psicologico oltre a tutta la sofferenza fisica inflitta dagli aguzzini. Una prima vittoria Nadia l’ha già ottenuta, con il Consiglio di Sicurezza dell’Onu che ha istituito un team investigativo per raccogliere le prove dei crimini dell’Isis. “Ci vorrà tempo, molto tempo ancora, ma credo che ce la potremo fare”.
Il Nobel, che le sarà consegnato a Oslo il 10 dicembre, è un premio che dona speranza alle vittime di stupri. E al mondo intero.
di Cristina Tirinzoni