Nella notte di Capodanno, tra riti e tradizioni beneaugurali, c’è anche quella di buttare qualcosa di vecchio o di rotto. Un gesto dal profondo significato simbolico: lasciar andare tutto ciò che non ci serve e non ci appartiene più, per iniziare il nuovo anno più leggeri e più felici. “Decluttering”: forse conoscete già questo termine: è l’arte di eliminare tutto ciò che è clutter, ovvero ingombro superfluo che ci opprime in casa, e fare spazio per far circolare nuova energia. Nei paesi anglosassoni questa pratica è diventata una vera filosofia di vita. Ed è un’attitudine che dovremmo applicare anche per alleggerirci delle zavorre emotive che stanno ancora condizionando la nostra vita. I rimpianti, i risentimenti, la paura di sbagliare e di quello che potrebbero pensare gli altri, il senso di colpa, il dover compiacere chiunque, il timore del cambiamento… schemi di pensiero ormai logori che ci stanno bloccando; legami, o esperienze ormai chiuse, da cui non siamo ancora riuscite a staccarci e che appesantiscono cuore e mente.
«Per secoli, il pensiero occidentale ha accordato scarso valore alla leggerezza, associata spesso all’effimero e alla superficialità. Ma nel nostro mondo questa dimensione diventa sempre più centrale e occorre con urgenza pensarla e coltivarla. Per recuperare pensieri più originali, gli slanci liberatori, i desideri più veri, per una cura delle relazioni più intima e autentica. E fare posto a ciò che davvero è importante nella nostra vita. E al nuovo», suggerisce Laura Campanello, filosofa e formatrice che alla “Leggerezza” ha dedicato il suo ultimo saggio, di Mursia Editore. «Procediamo lungo le strade delle nostre esistenze, accumulando emozioni, passioni, sentimenti, aspettative, relazioni, e solo raramente, magari dopo anni, ci accorgiamo di quanto il nostro “zaino” sia diventato pesante e ci ostacoli il cammino, fino al punto di schiacciarci e impedirci di andare avanti. Se la vita è un viaggio, è meglio avere un bagaglio leggero».
Pressione sociale, competitività esasperata, spread, insicurezza, lavoro precario… con tutto quello che succede, come si fa a coltivare la leggerezza?
«Proprio perché succede di tutto, ci vuole la capacità di planare con leggerezza sulla vita. La leggerezza non è superficialità, non significa girarsi dall’altra parte e pensare “chissenefrega”. Ma, come scriveva Italo Calvino: “planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore”. Leggerezza è un altro punto di vista da cui osservare la realtà, è un modo alternativo di vivere e interagire con gli eventi che ci capitano. Siamo invece sempre lì a rimuginare incontri e esperienze che ci hanno fatto soffrire, a ricordare con rimpianto amori. Quanti dolori tratteniamo, quante frasi sono ancora dentro di noi a tormentarci? Pesa il senso di colpa, la paura di non farcela, la solitudine, il rimpianto, i non detti pesano, come anche la pressione sociale del “dover essere”. Stipiamo tutto nel nostro zaino e ce lo trasciniamo dietro, quando invece la scelta più coraggiosa che possiamo fare sarebbe proprio quella di alleggerirlo. Proviamo allora ad appoggiare, anche solo per un attimo, il pesante sacco nero che ci portiamo sulle spalle e proviamo a guardare cosa contiene e cominciamo a smistare: questo lo tengo, questo lo mollo, a questo ci penso…».
Spesso sentiamo la necessità di “fare spazio” nella nostra mente, nel nostro cuore, ma poi non ne abbiamo il coraggio…
«Facciamo fatica a concederci leggerezza, perché spesso la viviamo come senso di colpa, forse temiamo che, se siamo leggeri, non troppo affaticati e angosciati, la vita ci riserverà qualche brutta sorpresa: allora la pesantezza serve come talismano. Siamo abituati a lamentarci più che a gioire. Spesso il cambiamento spaventa più delle situazione che appare insopportabile , e più o meno consapevolmente, preferiamo restare dove siamo, per quanto non ci si stia bene. La vera leggerezza è imparare dare il peso giusto alle cose. È dunque possibile essere leggeri, senza perdere spessore, senza impoverirsi, senza dimenticare la complessità e la ricchezza dell’essere umano».
Ci suggerisce qualche esercizio per coltivare la leggerezza?
«Proviamo ad esempio ad alleggerire il linguaggio che usiamo per raccontare la nostra vita: utilizziamo spesso molti termini iperbolici, esagerati. “Al lavoro è una tragedia!”,“la mia vita è un incubo”, “è tutto un disastro!”… Le tragedie, le catastrofi, i pesi della vita sono spesso ben altri, non le fatiche quotidiane che, per quanto gravose, nulla hanno a che fare con guerre, malattie, morti, tragedie reali. Smettiamo anche di lamentarci. Il lamento diviene spesso fine a se stesso e non prova ad andare oltre, ad aprire altre strade; permette di continuare a sentirsi vittime di qualcosa che non dipende da noi. Possiamo anche tenere a bada l’assedio e l’aggressione dei mass media, alleggerendo il peso delle parole vuote e inutili che ascoltiamo e delle immagini che vediamo. E proviamo invece ad accorgerci di preziose gemme dove ci sono. Impariamo l’esercizio di farci scivolare addosso i commenti dei capi-ufficio pretenziosi o arroganti, gli sguardi di disapprovazione per una scelta fatta. Leggerezza è anche saper dire qualche no con serenità. Liberiamoci dall’ossessione del controllo, che alla lunga causa ansia e frustrazione. Impariamo a vivere anche il lato sorprendente delle giornate e proviamo a prendere gli imprevisti come un dono, invece che qualcosa di negativo. Se riusciamo ad apprezzare ciò che abbiamo, avremo sicuramente una percezione più piena, fortunata e ricca della nostra vita. Impariamo a prendere confidenza con il silenzio: potremo così entrare in contatto con le nostre emozioni più profonde e diventare più consapevoli di ciò che ci fa stare bene.
Da dove cominciamo?
«La leggerezza inizia da piccoli gesti: uno sguardo non distratto, una passeggiata senza meta, il dolce far niente a letto, uno sbadiglio lasciato libero di esprimersi. E poi, ridere: ogni volta che sorridiamo, il nostro cervello riceve un feedback positivo. Proviamo a prendere le cose non sempre e non troppo sul serio sdrammatizzando un po’. Ogni sera, prima di andare a letto, osserviamo la nostra giornata e accorgiamoci di ciò che abbiamo vissuto con leggerezza e di ciò che invece abbiamo sentito pesante, ruvido, soffocante. E poi, come scrive George Elliot, “Teniamo quello che vale la pena tenere e poi, con il fiato della gentilezza, soffiamo via il resto”».
di Cristina Tirinzoni
Come liberarsi degli oggetti superflui
Le copie di vecchi giornali, il maglione indossato alla festa del liceo, scarpe scomode quantunque nuovissime, il cavatappi regalo del Natale 1986 mai usato… Possediamo troppe cose che non usiamo più, ma che ci soffocano e non lasciano spazio a cose che invece ci darebbero più gioia e senso di appagamento. Un ingombro superfluo che genera disordine e blocca l’energia vitale. Liberarsene ci aiuta a essere felici, come insegnano i “maestri” del decluttering. Perché riordinare è un atto mentale. Un guardarsi dentro, per riflettere su cosa veramente conta.
- È sempre bene fare il “repulisti” un po’ per gradi. Se ci avete messo anni ad accumulare, sarà difficile risolvere tutto in due giorni! Fare pulizia è faticoso, sopratutto emotivamente. Non si tratta infatti solo dello spazio che gli oggetti occupano, ma di quali voci interiori ed emozioni risvegliano. Potete cominciare con qualcosa di facile, ad esempio dai cassetti in cui conservate cose a cui siete meno affezionate; poi passate alle maglie, quindi alle scarpe e così via.
- Gli oggetti parlano di noi, e ricordano persone e momenti della nostra vita. Come si fa a buttarli? Come è possibile separarsi da questi “pezzi” di identità? Quando le cose vengono investite di un valore affettivo, legate a un’emozione, è più difficile liberarsene. E’ come se in quella vecchia teiera potessimo trovare la conferma di noi stesse, di ciò che siamo state. Affezionarsi agli oggetti è, in una certa misura, normale. Ma le cose restano cose, appunto. E non è certo buttando una cornice, o il vecchio biglietto del primo concerto rock, che cambierà il valore sentimentale del nostro passato. Il sentimento rimane, perché è nel cuore, non nelle cose. Quello a cui siamo attaccati in realtà è l’esperienza che abbiamo vissuto. E quella ha già avuto il suo effetto su di noi, ci ha già formati, arricchiti, ed è nostra per sempre.
- Lo uso frequentemente? Mi piace veramente? Perché lo tengo? Quell’oggetto è una fonte di energia positiva? Si addice alla vita che vivo ora o che voglio vivere? Il criterio con cui fare la scelta è molto facile: “conservare solo ciò che ci rende felici”. In altre parole, se quella cosa ci fa battere il cuore e ci regala ancora gioia, allora va conservata. Il resto va buttato senza ripensamenti.
- Non accumulate pile di oggetti con la scusa di decidere più tardi. Se la vecchia giacca rimane, assegnatele un posto. Altrimenti, eliminatela, senza ripensamenti. Che senso ha lasciarla ancora nell’armadio, coprendo ciò che ci piace o ci è utile tutti i giorni? O comprare qualcosa di nuovo e non sapere dove metterlo?
- Cosa fare degli oggetti eliminati? Il Decluttering insegna anche a essere generosi. Dateli in beneficenza, regalateli ad associazioni e scuole d’infanzia, alle biblioteche. Ben venga lo scambio. Potete venderli on line, portarli nei negozi specializzati nella vendita di abbigliamento vintage. E, infine, c’è il cassonetto (ovviamente, differenziando tutto quello che può essere differenziato).
Quando li portate fuori casa, ricordatevi di ringraziare gli oggetti che non volete più, uno per uno, per il lavoro svolto e per avervi accompagnato in un percorso, lo suggerisce, nel libro che l’ha resa una star Il magico potere del riordino (Vallardi Editore,) la giapponese Marie Kondo, che ha studiato lo shintoismo (una religione tradizionale giapponese che crede che ogni oggetto abbia un’anima). Un rituale che può far sorridere, ma non sembra anche a voi davvero bella l’idea di dire addio agli oggetti ormai inutili con gentilezza e senso di gratitudine? C. T.