Cinquemila, con meno di 40 anni: sono le donne colpite ogni anno, solo in Italia, da tumore. Se da un lato le aspettative di vita a 5 anni sono mediamente elevate, soprattutto se si tratta di neoplasie del seno o leucemie, dall’altro resta un aspetto critico da affrontare: quello della preservazione della fertilità e dunque del desiderio di maternità. Un diritto che, oggi, grazie a tecniche innovative e preventive di procreazione assistita, come la conservazione degli ovociti e del tessuto ovarico, non è negato alla donna neppure dopo la malattia. «La preservazione della fertilità – afferma Antonio Pellicer, Professore Ordinario di Ostetricia e Ginecologia presso l’Università di Valencia e Presidente IVI (Istituto Valenciano di Infertilità di Roma) – è parte fondamentale e integrante del percorso di cura di una donna affetta da tumore. Anche e soprattutto in funzione del contesto sociale che sta posticipando l’età media della donna alla prima gravidanza e dell’andamento dei tumori che stanno registrando casi di malattia anche piuttosto precoci, ancora in età fertile per entrambi i partner. Due eventi che invitano a formare medici sulle possibilità offerte dalla ricerca per la preservazione della fertilità nelle pazienti oncologiche o a rischio di infertilità iatrogena (indotta cioè da eventi esterni), e dall’altro a sensibilizza le giovani donne a non abbandonare il desiderio di una gravidanza anche dopo la malattia».
Una prospettiva, quella della maternità post-tumore, perseguita da molte donne come confermano i dati raccolti durante un censimento nell’ultimo decennio dal Registro Nazionale di PMA (Procreazione Medicalmente Assistita) curato dall’Istituto Superiore di Sanità. Infatti, in Italia sono oltre 3.500 le donne con diagnosi di tumore che hanno scelto di preservare la fertilità: di queste più di 2.100 sono ricorse alla crioconservazione degli ovociti (per un totale di 17.181 ovociti) e le restanti alla crioconservazione di tessuto ovarico.
«Nel nostro centro – spiega Pellicer – si utilizza in particolare la vitrificazione degli ovociti. Una tecnica che permette di congelare gli ovuli, preferibilmente di donne con meno di 37 anni, e di fermane “l’età genetica” nonostante il passare del tempo, potendoli poi impiantare ancora “giovani” nel momento in cui la donna deciderà di diventare madre». Studi recenti hanno dimostrato che l’uso di ovociti vitrificati, rispetto a quelli in fresco, non modifica le percentuali di successo della riproduzione assistita: in entrambi i casi i tassi di fecondazione riuscita, la qualità dell’embrione, di impianto e dell’andamento della gravidanza sono, infatti, equiparabili. «La crioconservazione del tessuto ovarico – continua l’esperto – consente invece di ripristinare la funzione ovarica e dunque di poter avere parti spontanei, riportando i livelli ormonali a valori adeguati ed evitando così anche gli effetti secondari tipici della menopausa precoce». Questa è una tecnica più “selettiva” rispetto alla precedente: ancora sperimentale, ma comunque sicura, non può essere infatti attuata in caso di leucemie, poiché esiste un rischio elevato di trasferire cellule maligne a partire dalla corteccia ovarica preventivamente criopreservata, mentre è indicata preferibilmente in donne con possibile compromissione della funzionalità ovarica o a rischio, a causa di un trattamento (in atto o futuro) con chemio o radio, perché interessate da malattie autoimmuni tali da richiedere anch’esse chemioterapia, in attesa di trapianto del midollo osseo o, ancora, con elevate probabilità di subire più interventi all’ovaio come nel caso di endometriosi.
Il Registro è stato uno strumento fondamentale nell’assistenza e aiuto alla donna con tumore poiché ha permesso di migliorare la conoscenza sulle diverse tecniche di preservazione della fertilità, ma anche di comprendere l’importanza di strutturare delle “reti” fra professionisti – oncologi, medici della riproduzione, ematologi, radiologi, pediatri, psicologi, infermieri, ostetriche, medici di medicina generale –associazioni di pazienti prima fra tutte l’Associazione Italiana Malati di Cancro (AIMaC) per garantire alle giovani pazienti oncologiche qualità di vita (e aspettative di maternità) una volta superata la malattia.
«Affrontare il tema della preservazione della fertilità immediatamente dopo la diagnosi di tumore e prima di iniziare le terapie – dichiara l’avvocato Elisabetta Iannelli, Vice Presidente AIMaC – è un diritto utile a garantire la genitorialità anche a donne e uomini malati di tumore». «In quest’ottica è compito dell’oncologo – aggiunge Giacomo Corrado, oncologo-ginecologo della Fondazione Policlinico Universitario “Agostino Gemelli” di Roma – prendersi cura della fertilità delle giovani coppie in qualunque fase del progetto di genitorialità, anche in funzione delle evidenze scientifiche: è documentato che gran parte dei farmaci utilizzati nel trattamento di donne al secondo e terzo trimestre di gravidanza, non provocano danni al feto né ritardano lo sviluppo del bambino».
Il tumore non è però il solo evento causa di infertilità; vi possono incidere ad esempio anche il ritardo diagnostico di infezioni intime maschili e femminili, la cui individuazione precoce attraverso strumenti e mezzi preventivi, potrebbe ridurre sensibilmente il numero di insuccessi di Pma. «Tra le soluzioni percorribili a questo scopo – precisa Pierangelo Clerici, presidente Amcli (Associazione Microbiologi Clinici Italiani) e direttore dell’UO Microbiologia Azienda Socio Sanitaria Territoriale Ovest Milanese – c’è l’applicazione di nuove linee guida condivise in tutti i 366 centri che in Italia si occupano di medicina della riproduzione. Questo comportamento clinico consentirebbe a un maggior numero di coppie di concepire in modo naturale, di ridurre le complicanze infettive dell’apparato genitale sia nella coppia sia in donne in attesa e nei nascituri, come anche diminuire gli aborti spontanei». Infatti il fallimento delle Pma, oltre all’età avanzata della coppia (soprattutto femminile) o a particolari alterazioni genetiche cromosomiche e del Dna spermatico e ovocitario, sono imputabili in molti casi a infezioni sessualmente trasmesse, prevalentemente Hiv, Hpv, Chlamydia trachomatis, Gonococco, Mycoplasmi che compromettono la qualità del liquido seminale e l’ambiente vaginale ed endouterino, riducendo le probabilità di concepimento naturale e assistito. Le linee guida, concordano gli esperti, sono dunque una necessità prioritaria: «Oggi le donne che si presentano a un centro di Pma vengono sottoposte a uno screening per la ricerca di virus e batteri del basso e alto tratto genitale, senza che sia seguito un protocollo sistematico, con una ricaduta sull’aumento dei costi o sull’esecuzione di test che rilevano la presenza di microrganismi, poi trattati con antibiotici anche senza necessità, favorendo così lo sviluppo di antibiotico-resistenze. L’obiettivo deve essere invece disporre di un percorso di diagnosi standardizzato, che permetta di valutare la condizione effettiva e reale dell’ambiente vaginale e intraprendere il corretto avvio alla Pma». Fino alla possibilità, una volta individuata la causa infettiva e il trattamento adeguato, anche di rinunciare alla tecnica assistita in favore di una gravidanza naturale e a termine.
di Francesca Morelli