Gioia Di Biagio, fiorentina, ha 33 anni: è una donna con profondi occhi azzurri e le pelle sottile. E’ così fragile da rompersi le ossa per un nonnulla e le sue spalle rischiano di lussarsi anche mentre dorme. Fare le cose più semplici, come aprire una bottiglia o un barattolo, abbottonarsi la camicia, le costa fatica. Gioia dovrebbe stare immobile: il movimento è quanto di più rischioso per lei, ma Gioia è sempre in movimento. Lo è perché, come lei dice, “nessuno sa essere forte, come una persona fragile”. Gioia è affetta da una malattia genetica rara, la sindrome di Ehlers Danlos, che colpisce la principale proteina strutturale, il collagene, provocando danni ai tessuti connettivi. Di conseguenza, i suoi muscoli collassano, le ossa si fratturano, compaiono lividi, ematomi, ecchimosi e lacerazioni, in seguito a traumi anche minimi, le ferite si cicatrizzano con difficoltà. Ma questo non le ha impedito di dedicarsi alle sue passioni: la danza, le arti marziali, la musica e il teatro. Gioia ha scelto di amare, cantare, conoscere gente, viaggiare. In occasione della Giornata dedicata alle Malattie rare (28 febbraio), le abbiamo rivolto qualche domanda.
Avevi sette anni quando ti fu diagnosticata la Sindrome di Ehlers Danlos. Che ricordi hai di quel periodo della tua vita?
«I miei genitori erano sempre in allarme per me e non smettevano di ripeterlo: “Gioia, non puoi correre, non puoi andare in bicicletta, attenta a non cadere, che ti fai male”. Abituata a vivere in questo allarmismo continuo, appena intorno a me c’erano movimenti troppo bruschi, recitavo la mia formula magica: “Attenti che sono fragile”. Mi vergognavo nel sentirmi “diversa”; avevo la sensazione di rovinare il gioco agli altri bambini. Rivedo ancora gli occhi terrorizzati e disperati dei miei genitori quando per l’ennesima volta mi caricavano in macchina per correre all’ospedale. Ricordo che mia madre, per proteggermi, ogni mattina mi imbottiva le calze con le spalline dei suoi vestiti anni ’80, sperando di evitami così qualche ematoma. Mi chiamava affettuosamente “il mio crostaceo” per via del busto che mi ha accompagnata per tutta l’adolescenza: dietro quella corazza rigida ho protetto per anni il mio corpo. Le prime manifestazioni della malattia le ho avute prestissimo: inciampavo continuamente, quasi che le gambe fossero entità a se stanti. Fortunatamente la sindrome è stata diagnosticata relativamente presto, per un’intuizione della dottoressa Maria Luisa Giovannucci Uzielli, primario di Genetica all’Ospedale Mayer di Firenze, amica di amici. Ancora oggi sento di doverla ringraziare; se non ci fosse stata lei, sarei ancora lì a chiedermi perché mi venivano tutti quei dolori, le lussazioni, le ecchimosi. E mi è andata bene: ci sono persone che passano la vita senza una diagnosi».
Cos’è la Sindrome di Ehlers Danlos?
«E’ un insieme di malattie genetiche ereditarie che colpiscono il tessuto connettivo. Ma ogni malato è diverso e si ammala in maniera differente: a qualcuno escono le spalle con uno starnuto, altri sono obbligati alla sedia a rotelle, perché a lussarsi sono le anche, le ginocchia, le caviglie, le dita, i gomiti. Fino alle lesioni più pericolose, quelle vascolari: le vene si possono infatti rompere irreparabilmente. Anche il portare avanti una gravidanza, per chi soffre di questa malattia, è particolarmente pericoloso, per rischio di rottura dell’utero e dei grossi vasi e può costare la vita».
Come ti sei curata?
«Come spesso accade nelle malattie rare non esiste un trattamento risolutivo: la terapia è sintomatica e di supporto; così pure la fisioterapia, la riabilitazione, i dispositivi di ausilio. Antidolorifici per il dolore e la vitamina C che fa bene al collagene: mi sono curata da sola, mettendo insieme corpo e mente. Inventandomi la vita giorno dopo giorno, momento dopo momento. Ho scelto di non concentrarmi su ciò che non potevo fare, ma su tutto quello che potevo fare. Già da bambina, per ogni cosa che mi veniva vietata, me ne inventavo altre mille. Sono diventata molto brava nel trovare strade alternative. Talvolta, però, la strada percorsa senza problemi il lunedì, il martedì era irta di rovi. Ho imparato a prendere un lembo delle pelle e riattaccarlo all’altro, chiudendo la ferita con i cerotti. Ho imparato ad ascoltare il mio corpo: se ascoltato, insegna a volersi più bene. L’ho capito l’ultima volta che mi è uscita fuori orbita la spalla sinistra. Era accaduto mentre dormivo: avevo alzato il braccio nel sonno senza accorgermene; ho dovuto essere operata. Non ho perdonato le mie spalle per molto tempo. Il rapporto fra me e il mio corpo è andato in crisi, come in una coppia: avevo deciso di non amarlo più; aveva esagerato e non riuscivo a perdonarlo. Per lungo tempo, non riuscivo ad alzare il braccio. E’ cosi che il mio corpo risponde alla mancanza d’amore: non ti amo più e smetto di funzionare».
Da dove deriva tutto questo coraggio?
«E’ il coraggio di chi crede nella vita. Ho imparato a rialzarmi perché sono caduta centinaia di volte. Ho imparato a godere appieno la vita, perché ho conosciuto il vero dolore. Anni fa ho iniziato a seguire un corso di aikido per donne anziane (mi ritrovo sempre benissimo in queste categoria!). Quest’arte marziale può essere praticata anche delicatamente, lavorando sul respiro. E un allenamento costante che apporta benefici all’apparato muscolo-scheletrico, cardiocircolatorio, metabolico, immunitario. Oltre a potenziare tutti i muscoli del corpo, dona flessibilità, resistenza e agilità. In giapponese le cosiddette cadute sono chiamate ukemi, che letteralmente significa ricevere il corpo: imparare a cadere vuol dire adattarsi a una situazione nuova e inaspettata senza opporsi in maniera diretta. Ho imparato a non irrigidirmi nella paura, ma a cadere delicatamente come una foglia di un albero».
Poi cosa è successo? Nel libro appena pubblicato da Mondadori: Come oro nelle crepe – Così ho imparato a rendere preziose le mie cicatrici ripercorri le tappe di un viaggio interiore: dal nascondere al mostrare le cicatrici dalla negazione all’accettazione della malattia, fino alla scoperta del valore della fragilità…
«Le cicatrici sono la parte visibile della sindrome di Elhers-Danlos. Ho passato la mia adolescenza a vergognarmi delle mie cicatrici. A un certo punto ho deciso di non nasconderle più: in fin dei conti le cicatrici sono come dei tatuaggi, perché è come se avessi scritto la storia della mia vita sul mio corpo. Ogni cicatrice ha una data, un nome, una storia. La più grande è quella che mi provocò una baby-sitter all’età di due anni: ero una bambina microscopica e lei, nel correre a prendere mia sorella che scendeva dallo scuolabus inciampò su di me, schiacciandomi contro un gradino. Mi fecero un trapianto di pelle, e mi è rimasta una grande cicatrice sul polpaccio che ho chiamato Italia, perche ha la forma dello Stivale. Una delle ultime, giù dalle scale di un Tempio in Thailandia».
Com’è avvenuto il tuo incontro con l’arte giapponese del kintsugi? E quando hai capito che poteva essere una tua alleata nella cura?
«Tutto è cominciato quando mia sorella incidentalmente ha fatto cadere la statuetta della piccola sposa di ceramica, che rappresentava il mio matrimonio, a cui ero particolarmente legata. Pensando a come rimediare, Ilaria si è ricordata di aver letto un articolo sul kintsugi, l’antica tecnica giapponese del riparare le porcellane andate in frantumi, versando dell’oro nelle crepe, così da renderle ancora più preziose. Nella notte non sono riuscita ad addormentarmi. Ho pensato che io stessa ero piena di crepe, nel corpo e nell’anima. In quel momento ho capito che il mio corpo, pieno di cicatrici, poteva diventare un “kintsugi vivente”. Da qui è nata anche una performance teatrale, Io mi oro che sto portando in giro, in cui come in un rituale ricopro di polvere d’oro le mie cicatrici. Il Kintsugi ha un valore simbolico: sottolinea come la cura delle ferite possa non solo permetterci di guarire, ma renderci in qualche modo più “preziosi”. Le cicatrici della vita diventano bellezza da esibire con orgoglio».
La foto di copertina del tuo libro è scattata da tua sorella Ilaria, che nel tempo ha realizzato un vero racconto fotografico su di te e sulla tua sindrome.
«Da alcuni anni sto portando avanti con mia sorella Ilaria, fotografa, il progetto “Fragile” per far conoscere una malattia rara attraverso uno sguardo più delicato e poetico, quello di due sorelle. In poche fotografie si può capire tutto l’affetto che c’è tra noi. Siamo molto unite: abbiamo dovuto affrontare insieme grandi difficoltà e dolori (la morte dei genitori) e ciò ci ha rese inseparabili».
C’è una fotografia in cui tuo marito lvan ti fa un massaggio alla schiena e la pelle si allunga come un elastico. L’amore di tuo marito (musicista e terapista) fa parte del percorso di guarigione? «Si combatte insieme: Ivan si è sempre preso cura del mio corpo con carezze, pressioni, stiramenti, rotazioni e tanta pazienza. Partendo dalla riparazione della sua “dolce metà”, ha iniziato a studiare e ha conseguito il diploma in Shiatsu. Abbiamo girato il mondo insieme (Equador, Messico, Amazzonia, India, Thailandia): mentre io frequentavo corsi di oreficeria, lui studiava medicina ayurvedica, massaggi thai, riflessologia plantare, reiki. Ivan non ha mai avuto paura delle mie fragilità, pur conoscendole bene. Abbiamo girato, viaggiato, vissuto esperienze e scoperte. In Colombia per esempio abbiamo raggiunto il parco naturale di Tayrona a cavallo; in Thailandia abbiamo girato anche in moto. Prima di partire per un qualunque viaggio devo solo portare con me il minimo indispensabile: arnica, antidolorifici, assicurazione sanitaria, cartella clinica e… lista di tutti gli ospedali della zona».
E poi c’è la musica, l’altra tua grande passione. Con il tuo gruppo musicale tutto al femmnile Le Cardamomò suoni uno strumento pesante come l’organetto, affronti lunghi tour anche all’estero.
«Credo che anche la musica, ascoltata, suonata, improvvisata, ballata, possa curare il corpo e l’anima. Che la musica possieda potenzialità terapeutiche, lo confermano anche le ricerche scientifiche. Supero così la mia paura e le mie fragilità: perché la musica mi emoziona. Il nostro nuovo album, uscito per l’etichetta Bassa Fedeltà, si chiama “Vive la Vie”: celebra la vita, la rinascita e il desiderio. Nascere non basta; è per rinascere che siamo nati. Siamo partite suonando in strada e poi nei locali. Poi sono arrivati anche i tour europei; e Ivan ha preso la sua tromba e si è unito a noi».
Hai qualche consiglio da dare a chi convive con una malattia cronica?
«In realtà vorrei dare un consiglio a chiunque abbia una ferita nel corpo o nel cuore. Ed è quello di scegliere di mettere oro, cioè impegnarsi per rendere preziosa e luminosa la propria vita, accettando i propri limiti, e provando sempre a superarli. È difficile? Moltissimo: è una ricerca e un impegno continuo, quotidiano, non esistono scorciatoie. Ma è un lavoro che porta risultati straordinari. Gerald Jampolsky, psicanalista americano, diceva che nella vita ci sono due forze: quelle della paura e quelle dell’amore. Dove c’è una, non c’è l’altra, o meglio, nella misura in cui non c’è una, non c’è l’altra. Sta a noi scegliere: da noi dipende se provare amore e quindi pace, gioia, serenità, amicizia, oppure paura, rabbia, infelicità. Ho imparato dall’amore e dall’amicizia».
Ti chiami Gioia…
«Come mia mamma che mi ha dato questo nome perché le ha portato fortuna: da piccola mi chiamavano però Mao perché mia sorella, non sapendo dire Gioia, aveva interpretato il mio pianto per ogni caduta come un miagolio; poi crescendo sono diventata Gioietta. Per me è un nome bellissimo, ma anche uno stile di vita, una missione. Non so se è il nome a definirti la vita, per me lo è. Io sono Gioia ed è quello che voglio essere. Il mio nome me lo ricorda in ogni istante».
di Cristina Tirinzoni