“Ba-ba-ba-banana”: non è una cantilena ma la fatica, enorme, che compie chi soffre di balbuzie per emettere suoni e parole, anche molto semplici. In Italia i disturbi specifici del linguaggio, compreso la balbuzie, sono molto diffusi: colpiscono il 10% dei bambini, in prevalenza maschi, intorno ai 30-33 mesi e il 5-6% dei bimbi in età scolare con un impatto importante oltre che sul linguaggio anche sull’autostima, sulle relazioni personali e sociali, sul rendimento scolastico. Nell’88% dei casi la balbuzie si risolve spontaneamente, ma in altri può permanere anche in età adolescenziale e adulta. Oggi un approccio multidisciplinare messo a punto dal “Centro Vivavoce” di Milano, di cui è stata inaugurata la nuova sede, può aiutare a risolverla. In occasione della Giornata mondiale della voce (16 aprile) abbiamo intervistato la dottoressa Valentina Letorio, Psicologa e Responsabile Clinico Vivavoce (ed ex-balbuziente).
Sentendola parlare oggi nessuno sospetterebbe il suo passato di balbuzie. Come ha convissuto con questo disturbo e che impatto ha avuto sulla qualità di vita?
«Sono un caso strano, non solo perché è difficile che la balbuzie colpisca una bambina, ma anche per l’insorgenza tardiva. Ho avuto le prime avvisaglie alle scuole elementari, con fenomeni piuttosto sporadici a cui non ho mai dato importanza, anzi ci ridevo sopra. Poi con l’ingresso alle scuole medie questa mia fatica si è via via sistematizzata, diventando un grosso problema: non riuscivo a dire bene alcune cose e cominciai a vivere la balbuzie come un limite che mi condizionava molto, anche dal punto di vista scolastico. In classe non facevo domande, né riuscivo a fare discorsi articolati. Conoscevo in anteprima le parole che avrebbero fatto fatica a uscire, così spesso le cambiavo con il rischio di stravolgere il senso del mio discorso o adottavo strategie nel parlare: il colpetto di tosse, l’intercalare, la gestualità fino a rinunciare a dire ciò che avevo in mente. Tutti espedienti che, soprattutto in contesti difficili come parlare in pubblico o telefonare, aumentavano il mio stato di paura e ansia. Per fortuna non sono stata mai vittima di episodi di discriminazione da parte degli insegnanti o di bullismo dei compagni. Ma il tempo passava e il problema non migliorava, anzi: all’università, il momento più critico è stata la mia discussione di laurea, sebbene alla fine ho conseguito il mio faticoso risultato».
Oggi è tutor e rieduca al recupero della fluidità del linguaggio tanti giovani che, come lei, soffrono dello stesso problema. Quando ha deciso di diventare psicologa e di dedicarsi alla balbuzie?
«Il mio interesse per la psicologia è nato nelle scuole superiori quando ho cominciato ad appassionarmi alla mente umana e ai meccanismi psicologici che sottendono alcuni comportamenti. Così all’Università, dopo avere vagliato attentamente il programma di studio e il numero di esami orali da sostenere, mi sono iscritta a psicologia con indirizzo verso le neuroscienze e l’area neuropsicologica. Il mio interesse, anzi la mia presa di posizione nei riguardi della balbuzie, sono nate dopo, verso i 25 anni, quando, mentre svolgevo il tirocinio presso una clinica di neuroriabilitazione, il mio tutor mi aprì gli occhi. Se non avessi fatto qualcosa, la balbuzie mi avrebbe limitato, non solo nella vita personale e privata, ma anche sul lavoro. Ad esempio non ero in grado di somministrare e consegnare correttamente un test a pazienti neurologici e fui esclusa da questa mansione. Mi misi a fare ricerche per capire come poter risolvere il problema, finché casualmente incontrai Giovanni Muscarà, mi presentò il suo metodo e mi iscrissi al suo (per)corso per il recupero della balbuzie. Fino ad allora non ne avevo neppure sentito parlare».
Penso che la sua esperienza personale sia un valore aggiunto alla comprensione e all’aiuto dei suoi giovani allievi…
«Sì. Osservo i ragazzi che giungono da noi il primo giorno e, durante l’intervista di presentazione, nei loro comportamenti scorgo me stessa di un tempo. Conosco i loro pensieri e so come motivarli a mettere in pratica nella quotidianità quello che insegniamo ai corsi. Infatti il nostro metodo non si avvale solo di lezioni frontali, ma anche di esperienze sul campo in situazioni difficili. Sì, il mio passato di balbuziente è senz’altro un valore aggiunto».
La causa della balbuzie non è ancora conosciuta; dunque è difficile anche identificare una cura. Qual è la terapia più tradizionale?
«I trattamenti classici sono di tipo monofattoriale, ovvero lavorano su uno solo degli aspetti che strutturano il fenomeno complesso della balbuzie. Tra questi c’è l’approccio logopedico, che agisce solo sul disturbo linguistico, educando a reimpostare il modo di parlare attraverso tecniche quali la meccanica del canto, l’allungamento dei suoni, la cantilena, a discapito però della naturalezza dell’eloquio. Poi ci sono filoni psicologici e psico-terapeutici che lavorano sul legame ansia-balbuzie (ricordando che l’ansia è una conseguenza della balbuzie e non viceversa!), gli stati ansiosi, il rilassamento muscolare per motivare anche l’autostima e la voglia di mettersi in gioco. Sono aspetti importanti, ma non vanno al cuore del problema».
Lei è responsabile clinico del Centro “Vivavoce”, come si distingue il vostro metodo di cura?
«Prendiamo in carico la persona a 360° e per questo “Vivavoce” si avvale di un team multidisciplinare di psicologi, logopedisti e fisioterapisti, così da trattare tutte le variabili coinvolte nella balbuzie: linguistiche, motorie, cognitive, emotive e comportamentali. Il nostro percorso si articola in due momenti: una fase intensiva di corso di una settimana, con sessioni individuali e di gruppo, che attraverso l’uso di uno specifico software ed esercizi mirati insegna a riprendere il controllo di alcune parti del corpo, come mandibola e labbra, coordinandole con altri movimenti coinvolti nel parlare, e test sul campo attivati già dal secondo giorno di corso, come prove telefoniche, ordinazioni al bar, richiesta di informazioni ai passanti, simulazione di un colloquio di lavoro, anche in lingua straniera. Prove che ci consentono di verificare il controllo su abilità che possano avere una ricaduta/implicazione in contesti di vita vera. A questa settimana intensiva segue poi una fase di lavoro riabilitativo post-corso che dura circa 6 mesi in cui gli allievi, a casa, devono allenarsi circa 30 minuti al giorno con esercizi mirati e partecipare a incontri di training in sede o virtuali via web, attraverso la app di “Vivavoce” o in videochat».
Cosa fare e non fare con un bimbo con la balbuzie? Qualche consiglio per mamma e papà?
«Per prima cosa non devono cedere all’allarmismo, perché in molti casi la balbuzie si risolve spontaneamente con l’ingesso alle scuole elementari. Come consigli pratici, è bene: evitare frasi quali “Stai calmo”, “Respira” che eccitano l’ansia; non completare le frasi al posto del bambino lasciandogli invece il tempo per esprimersi, non porre domande a raffica. Cosa, invece, è importante fare? Promuovere interazioni e momenti di gioco con altri bambini e mantenere un contatto fisico, ad esempio non distogliendo lo sguardo quando una persona balbetta. Un atto che viene percepito come una mancanza di interesse verso quanto viene detto dal balbuziente e non come una gentilezza per togliere dall’imbarazzo». Per ulteriori informazioni sul centro “Vivavoce” (via Pergolesi, 8 – Milano): www.vivavoceinstitute.com; info@vivavoceinstitute.com; tel: 02/36692464 – 334/7288188.
di Francesca Morelli