Ci sono luoghi sospesi tra la vita e la morte. Luoghi dove non si vorrebbe mai entrare, che pensiamo lontani dalla vita quotidiana e, invece, sono anch’essi parte della vita e ci si può ritrovare lì: ad accudire un proprio caro o un amico, intrappolati in una sorta di limbo, dove le funzioni biologiche sono intatte, ma la coscienza è sospesa. Ogni giorno la cronaca ci propone notizie relative a incidenti stradali, soprattutto tra i più giovani, con conseguenze estremamente invalidanti. Tanti e altrettanto drammatici sono i casi di ictus, arresto cardiaco, emorragia cerebrale… per cui le persone colpite rimangono in uno stato di “sospensione della coscienza”. Magda Fontanella, 33 anni, una laurea in filosofia con una specializzazione in bioetica, ha scelto di lavorare proprio in uno di questi luoghi: il Nucleo stato vegetativo degli Istituti riuniti Airoldi e Muzzi di Lecco. Supporta, con l’aiuto della pratica filosofica, chi si prende cura di questi malati: dai parenti al personale sanitario (medici e infermieri). Nella città che ha visto la battaglia di Beppino Englaro per l’autodeterminazione sul fine vita della figlia Eluana (morta in seguito alla sospensione della nutrizione artificiale dopo 17 anni di stato vegetativo, al termine di una lunga vicenda giudiziaria), è stata infatti creata, dal 2013, una speciale unità di accoglienza per le persone in stato vegetativo e i loro familiari. In occasione della Giornata del Sollievo (26 maggio) le abbiamo rivolto qualche domanda.
Come può essere d’aiuto la filosofia in questo suo lavoro?
«Da sempre la filosofia si occupa delle grandi questioni di senso – vita, morte, dolore – e io sono sempre stata affascinata da queste domande. A volte nella vita quotidiana non le si affronta, ma quando accade qualcosa, come un incidente, una malattia, questi interrogativi tornano prepotentemente a galla. Credo che portare la filosofia dentro i luoghi della sofferenza, del dubbio, della speranza disattesa possa essere di aiuto. E questa è più o meno l’idea portante del mio percorso di studi, che poi è diventato il mio percorso lavorativo. Ho svolto il dottorato di ricerca proprio in questo reparto, quando ancora stava prendendo forma e si riempiva di macchinari, letti e personale in camice bianco».
Come è cambiato il modo di relazionarsi con questi pazienti?
«Anzitutto il termine “vegetativo” è di per sé fuorviante, perché fa pensare a qualcosa di statico: in realtà si tratta di persone che non sono in grado di rispondere agli stimoli esterni, ma non sono certo inerti: hanno altre forme di reazione al dolore, alla gioia o alla sofferenza. E poi spesso mostrano modi totalmente diversi di interagire con l’esterno. Noi abbiamo imparato che con il paziente si parla: anche se non c’è una risposta di tipo verbale, sappiamo che quello che noi diciamo – anche attraverso i gesti o semplicemente il tono di voce – provoca una reazione. In quelle stanze, nell’androne di ricevimento, nella sala del tè per i parenti o nei giardini antistanti gli ingressi, non esistono gli “stati vegetativi”, ma gli individui, ognuno con la propria irrinunciabile unicità. Da qui emerge prepotente l’importanza del prendersi cura sia del malato che della sua famiglia, entrando in relazione con entrambi e non limitandosi alla mera trasmissione asettica di dati, diagnosi e alla somministrazione delle terapie. La filosofia in ambito sanitario è incentrata sull’obiettivo di migliorare la qualità di vita delle persone malate, delle loro famiglie e la qualità delle cure erogate e ricevute. Il paziente, pur trovandosi in una situazione di apparente incoscienza, richiede una continua assistenza, spesso a basso contenuto tecnologico, ma sempre ad alto contenuto umano. Ha bisogno di idratazione e alimentazione artificiale, ma anche di carezze, baci, musica, stimoli continui».
Di cosa hanno bisogno i familiari?
«Di un ascolto attento, non giudicante, capace di accogliere la rabbia, le frustrazioni, il dolore, la speranza, lo scoramento. Padri, madri, mariti e mogli sono costantemente in una condizione di attesa. Nei lunghi momenti che trascorrono accanto al proprio familiare passano ore interminabili e spesso sono ore di silenzio cariche di domande inespresse. La loro vita è un’altalena di emozioni: sospesa come quella del loro caro. Ci sono giorni nei quali ancora sperano nel miracolo del risveglio e altri in cui si fa strada la consapevolezza di accompagnare la persona amata in un viaggio senza ritorno. Ammetterlo non è facile. L’evento irrompe improvvisamente nella loro quotidianità, la lacera, la sconvolge lasciando un vuoto incolmabile, una disperazione senza risposte e una solitudine fatta di incomprensione, impotenza, disagio, talvolta anche del riemergere di antichi conflitti. In assenza di una rete di protezione che aiuti a reggere il drammatico cambiamento, quando in una famiglia accade un evento così traumatico non è solo una persona ad ammalarsi, ma entra in crisi l’intero nucleo familiare, scuotendone gli equilibri. I primi sei mesi sono da incubo, perché il trasferimento al Nucleo per stati vegetativi non è immediato: i parenti quindi iniziano a temere che ci sia un abbandono della cura dei propri cari e, come se non bastasse, il non sapere a cosa andranno incontro rende il tutto ancora più incerto. Lo stato vegetativo può durare anche 20 anni. Il mio compito è quello di aiutarli a interrogare il loro dolore in modo da accoglierlo. Non riescono a capire, e del resto non lo sappiamo nemmeno noi, cosa realmente percepiscano i loro cari. Ed è questa la domanda più pressante».
Qual è il consiglio principale che darebbe ai familiari di un paziente in stato vegetativo?
«Quando sono uscita dall’università e ho cominciato ad andare in reparto pensavo di avere tutte le risposte; in realtà una delle cose più preziose che si impara in questo mestiere è proprio il non dare consigli, ma accogliere le storie e aiutare ogni persona a trovare il suo senso, le sue parole e i suoi spazi. Nel mio intervento non c’è mai un giudizio, una presa di posizione, una certezza. La filosofia in reparto non propone teorie filosofiche precostituite, ma si occupa di casi specifici e situazioni particolari, aiutando il proprio interlocutore a esplorare, chiarire, trovare la bussola dei propri pensieri. Durante tutto il mio percorso qui all’Iram, le mie sono sempre state proposte molto aperte, che miravano a lasciare libertà di scelta alle persone: anche il rifiuto del dialogo da parte loro fa parte del percorso di ascolto, è una risposta che si traduce in “ora non me la sento” oppure “ora non ho voglia”».
Magda, lei accompagna nel lavoro quotidiano anche l’équipe sanitaria?
«È importante dare un valore alla azioni di cura anche quando si sa che non sono finalizzate al miglioramento o alla guarigione. La filosofia arriva nelle corsie per cercare di recuperare questa dimensione umana nell’approccio alla cura. Partendo dalla consapevolezza che il tempo della comunicazione costituisce tempo di cura. La finalità è anche quella di fornire strumenti teorico-pratici di supporto al personale medico, coinvolto nei processi decisionali in ambito sanitario, di fronte a dubbi o conflitti morali che emergano nella pratica clinica e negli aspetti organizzativi collegati. Per usare con saggezza gli strumenti che le possibilità tecnologiche mettono a disposizione. I passi avanti compiuti dalla medicina pongono i sanitari sempre più spesso di fronte a questioni che non sono più solo di tipo clinico, ma anche a interrogativi di tipo etico e morale. Una riflessione sulla validità clinica di una cura, ma anche sull’opportunità di intraprenderla, sulla proporzionalità dell’intervento».
Il 31 gennaio 2018 è entrata in vigore la legge n. 219 sul cosiddetto testamento biologico. Qual è la sua posizione?
«Il mio giudizio sulle disposizioni anticipate di trattamento o Dat, è complessivamente buono: non tanto perché sancisce la possibilità per ciascuno di decidere autonomamente e anticipatamente di quali cure avvalersi (qualora in condizioni future non fosse più capace di esprimere il consenso), bensì perché evidenzia alcuni altri temi fondamentali, come quello del consenso informato ai trattamenti sanitari e il riconoscimento del tempo della comunicazione come tempo di cura, di estrema importanza, una volta che la diagnosi viene fatta, ai fini di un’adeguata pianificazione delle cure. D’ora in poi i malati, le loro famiglie, gli operatori sanitari saranno meno soli in situazioni drammatiche. Con questa legge le volontà attuali e future del malato, sia pur dentro un’intensa relazione con il medico e l’équipe curante, devono essere rispettate. Credo che compilare le proprie dichiarazioni anticipate di trattamento abbia un valore profondamente educativo, perché obbliga ad affrontare temi esistenziali che spesso rimuoviamo, a dibatterli, a interrogare e interrogarsi su valori come la vita, la fragilità, la morte. La legge italiana vieta sia l’eutanasia che l’accanimento terapeutico. Nel mio personale convincimento occorre sempre tenere insieme libertà di scelta e rispetto della vita, ponendoli in dialogo».
Nel suo recente saggio: “L’identità umana come sistema complesso – Da Edgar Morin alla filosofia in reparto”, ha deciso di ispirarsi proprio al filosofo Edgar Morin: perché?
«Perché mi ha dato modo di parlare dell’essere umano come una meravigliosa complessità, non riducibile a ogni sua singola parte. Più conosciamo l’umano, meno lo comprendiamo. Per questo, dice Morin, che io considero il più grande pensatore vivente (è quasi centenario), abbiamo bisogno di una conoscenza che superi la parcellizzazione di saperi separati e autoreferenziali, tipica della nostra epoca, e sappia leggere e pensare il reale come complessità. Tutto è più complesso: l’universo, la vita, l’umano.Vita e morte, ordine e disordine, certezze e incertezze, noto e ignoto, sono aspetti complementari e inscindibili, misteriosamente uniti. La conoscenza di certo progredisce, illumina, ma contemporaneamente rende più evidente, per contrasto, il mistero e lo stupore in cui siamo immersi. Lavorare in questi reparti è veramente “un altro mondo”, dove si tocca con mano l’insondabilità del mistero dell’uomo».
di Cristina Tirinzoni