Con oltre 33mila nuove diagnosi ogni anno, i tumori del sangue sono al quinto posto della classifica dei più frequenti nel nostro Paese, ma i passi avanti della ricerca confermano terapie sempre più efficaci. Importanti novità sono in arrivo per la cura delle Mielodisplasie, un gruppo complesso di tumori rari del sangue, causati da un difetto di produzione delle cellule ematiche (globuli rossi, bianchi e piastrine), fino a poco tempo fa misconosciute e poco studiate. Queste malattie sono state al centro del dibattito del terzo Forum che si è tenuto di recente a Roma. Per conoscere da vicino le novità e capire quali sono le vie di cura, in occasione della Giornata Mondiale delle Mielodisplasie (25 ottobre), abbiamo intervistato la professoressa Maria Teresa Voso, associata di Ematologia e direttore dell’Unità Sindromi Mielodisplastiche e Diagnostica avanzata dell’Università di Tor Vergata di Roma.
Cosa sono le Sindromi Mielodisplastiche? Quali sintomi le caratterizzano? Quale incidenza in Italia?
«Le Sindromi Mielodisplastiche (MSD) sono malattie del midollo osseo caratterizzate da un’alterata maturazione delle cellule progenitrici degli elementi del sangue (globuli rossi, globuli bianchi, piastrine). Il segno principale è costituito dalle citopenie periferiche, più di frequente (50-60%) l’anemia, la piastrinopenia, la neutropenia. In queste malattie ci può essere anche un aumento dei blasti (cellule immature) nel midollo e alcune alterazioni dei cromosomi: tutti questi elementi vengono studiati per prevedere il rischio della patologia di evolvere in leucemia mieloide acuta. L’anemia, che è il segno più comune, si associa a stanchezza, affaticabilità anche per sforzi lievi come salire uno-due piani di scale, irritabilità, insonnia, inappetenza, alterazioni dell’umore, oltre al pallore di cute e mucose».
Altre complicanze?
«La carenza delle piastrine, elementi del sangue deputati alla coagulazione, dà luogo a comparsa di petecchie, ematomi o sanguinamento. La neutropenia si associa a un aumento del rischio di infezioni, per cui anche germi banali, che in condizioni normali non danno problemi, possono dar luogo a complicanze infettive con febbre persistente, che in qualche caso è il sintomo di esordio. Le Mielodisplasie, classificate tra le malattie rare, sono tumori del sangue a tutti gli effetti. Si tratta di pazienti fragili, spesso anziani (nel 90% dei casi di età superiore a 60 anni), con comorbidità legate all’età (cardiovascolari, diabete, pregressi tumori) e poiché sono anemici, hanno spesso bisogno di trasfusioni. Riguardo all’incidenza, in Italia si registrano 3-4 nuovi casi ogni 100 mila abitanti l’anno nei soggetti giovani, ma raggiungono 20 nuovi casi ogni 100 mila nei pazienti anziani. Negli anni si è verificato un cambiamento: sempre più spesso le diagnosi vengono fatte nei Centri ematologici e pochi pazienti vengono seguiti nei reparti di medicina interna o dal medico di famiglia. Occorre notare che in passato la consapevolezza non era così diffusa tra i medici: che l’anziano avesse un’anemia era quasi un evento normale e spesso non si approfondiva il problema».
Può tracciare un profilo del paziente con Sindrome Mielodisplastica? Esiste una differenza “di genere”? Come si arriva alla diagnosi e quanto è importante per il trattamento del paziente?
«Le Mielodisplasie sono malattie eterogenee, quindi non riusciamo a circoscriverle in un unico profilo. Possiamo identificare almeno tre profili: uno è il paziente anziano con anemia isolata, macrocitica in cui i globuli rossi sono più grandi perché non maturano bene: presenta solo l’anemia che esordisce con livelli di emoglobina di 9-10 grammi/dl, livelli di ferro, folati e vitamina B12 nella norma. In questi casi si arriva dall’ematologo, che prescrive l’aspirato midollare e giunge alla diagnosi di Sindrome Mielodisplastica. Questo paziente ha come opportunità terapeutica l’utilizzo dell’eritropoietina, che stimola la produzione dei globuli rossi e ha probabilità di risposta intorno al 50-60% dei casi. All’altro estremo c’è un paziente spesso anziano che, oltre ad avere l’anemia, presenta bassi livelli di piastrine e globuli bianchi, e un aumento della percentuale dei progenitori immaturi (blasti) nel midollo. Capita che questo paziente si rivolga all’ematologo perché ha avuto una febbre che non passava oppure una polmonite, e il medico di famiglia, dopo un certo periodo di controllo dell’emocromo, si accorge che c’è una carenza di globuli bianchi. In questo caso il paziente viene sottoposto all’ago aspirato midollare da cui si evidenzia la presenza di progenitori immaturi, o blasti e può iniziare alcuni trattamenti, come la terapia ipometilante».
Cosa può succedere se il paziente non viene trattato con la terapia?
«Questo paziente, se non trattato, ha una elevata probabilità di evolvere in leucemia mieloide acuta nel giro di 8-12 mesi. Se invece si cura con i farmaci ipometilanti che sono disponibili da una decina d’anni, può prolungare la sua sopravvivenza di alcuni anni. Poi abbiamo un quadro intermedio, quello di un paziente che ha soltanto una piastrinopenia, oppure solo neutropenia, che in base al sintomo prevalente riceverà una terapia di supporto. La cosa più importante è definire qual è la probabilità di evolvere in leucemia mieloide acuta, per cui tutti i pazienti devono essere studiati in una struttura ematologica dove si effettuano i seguenti esami: oltre all’emocromo, l’esame morfologico del midollo e la citogenetica. L’accuratezza diagnostica è fondamentale e richiede emocromo, esami ematochimici con lo studio del bilancio del ferro, della vitamina B12 e dei folati, e l’aspirato midollare nel quale si possono vedere molte cose: la displasia dei progenitori del sangue, il cariotipo con le alterazioni dei cromosomi associate alla malattia e la percentuale di progenitori immaturi (blasti). Tutto questo consente di trovare anche alterazioni particolari dei cromosomi (delezione del braccio lungo del cromosoma 5) che definisce una MSD particolare: la Sindrome del 5Qmeno che ha un trattamento specifico, la lenalidomide (della classe della talidomide). Questa forma mielodisplastica è più frequente nelle donne (70%) dopo i 70 anni. Si è visto che utilizzando questo farmaco, pratico da usare perché in compresse, si è avuto nel 70% dei casi la remissione della malattia, con la sospensione delle trasfusioni».
Chi ha la Sindrome Mielodisplastica nel 50% dei casi presenta anemia di grado severo e richiede trasfusioni. Come funziona la presa in carico di questi pazienti da parte del SSN? Quali sono i bisogni non ancora soddisfatti dei malati e le criticità su cui bisogna lavorare?
«Un problema è la disponibilità del sangue: si riesce a garantire abbastanza il supporto trasfusionale in condizioni di normalità, ma ci sono momenti drammatici come durante le feste natalizie e l’estate. Quindi, una campagna di sensibilizzazione che incoraggi le donazioni di sangue è molto importante. Siccome si tratta di pazienti anziani e spesso anche i coniugi sono anziani, devono affidarsi ai figli. Sottoporsi a una trasfusione di sangue significa passare almeno mezza giornata in ospedale, con tutti i disagi che ne conseguono per il paziente e il suo accompagnatore. Allora, l’assistenza domiciliare capillare per questi pazienti che consenta di portare le trasfusioni a domicilio, si tradurrebbe in un risparmio in giornate lavorative per i caregiver e migliorerebbe la qualità della vita del malato. Un limite a questa opportunità, è che la trasfusione richiede la presenza del medico. Un’alternativa potrebbe essere un servizio di trasporto organizzato del paziente alle strutture ospedaliere, per evitare che l’anziano diventi dipendente dai figli, dalla badante o da conoscenti. Le strategie per affrontare queste problematiche richiedono una valutazione globale delle variabili che incidono su questo servizio, tenendo conto delle giornate lavorative dei familiari, il tempo e le spese di trasporto dei pazienti all’ospedale».
di Paola Trombetta
CAR-T: le nuove frontiere dell’ematologia
Di queste nuove terapie si è discusso di recente a Roma in occasione del 47° Congresso nazionale della Società Italiana di Ematologia SIE. «Il mondo delle malattie del sangue è stato rivoluzionato dalla possibilità di curare alcune patologie, soprattutto quelle neoplastiche, senza chemioterapia, grazie alle CAR-T cell». ha dichiarato Paolo Corradini Presidente della Società Italiana di Ematologia e Direttore Divisione di Ematologia dell’Istituto Nazionale dei Tumori di Milano. «I dati consolidati a medio-lungo termine mostrano infatti che il 50% di pazienti con Leucemia Linfoblastica Acuta (LLA) e il 35% di Linfomi non Hodgkin a Grandi Cellule B (DLBCL) hanno un controllo duraturo della malattia che potrebbe corrispondere a guarigione». Ma si tratta di una cura destinata a pazienti selezionati: le CAR-T sono state approvate in Italia nei pazienti affetti da Leucemia Linfoblastica e Linfomi che non hanno risposto o hanno avuto ricadute dopo aver ricevuto le terapie convenzionali (chemio e radioterapia).
Come funzionano? «Si tratta in realtà di una forma di immunoterapia che utilizza particolari globuli bianchi, linfociti T, prelevati dal paziente e modificati in laboratorio, per renderli capaci di riconoscere le cellule del tumore. Quando vengono reinseriti, entrano nel circolo sanguigno e sono in grado di colpire selettivamente le cellule tumorali e distruggerle. In base ai criteri stabiliti da AIFA – ha proseguito Corradini – per l’utilizzo di queste CAR-T cell sono qualificati 5 centri lombardi (Ospedale San Raffaele, Humanitas, Papa Giovanni XXIII di Bergamo, Pediatria dell’Ospedale San Gerardo di Monza e la Fondazione INT di Milano), 1 del Lazio e 1 dell’Emilia-Romagna; è in corso la qualificazione per la regione Piemonte, Veneto e Toscana». P.T.