“Nel tuo affetto ho trovato tutte le dolcezze, tutte le consolazioni che credevo perdute per sempre”, scriveva Giulia Trigona, nobildonna palermitana, dama di corte della regina Elena di Savoia, moglie del conte Romualdo Trigona, zia di Giuseppe Tomasi di Lampedusa. E in quella illusione d’amore, trovò la morte. Uccisa a 34 anni in uno squallido albergaccio vicino alla stazione Termini. Uccisa con 27 pugnalate, sferrate con furia dal suo amante, al quale aveva concesso un ultimo appuntamento, il tenente di cavalleria Vincenzo Paternò. Accadeva il 2 marzo 1911. Un femminicidio feroce, che ancora oggi si ripete come raccontano le cronache. La violenza di genere cresce ancora. Ogni quarto d’ora, in Italia, una donna è vittima di violenza, dicono i dati aggiornati diffusi dalla Polizia di Stato. Nel 2018 sono state 142 le donne uccise, 119 in famiglia (+6,3%), 94 nei primi dieci mesi di quest’anno. E in sei casi su10 l’assassino è il partner o l’ex partner. Gelosia e possesso, la mancata accettazione di una separazione sono ancora il movente principale (32,8%).
Da quel lontano drammatico fatto di cronaca, Monica Guerritore, straordinaria interprete, attrice e regista, ha tratto ispirazione per un libro immaginifico: “Quel che so di lei – Donne prigioniere di amori straordinari”, uscito di recente per Longanesi dove, con una scrittura drammaturgica (ci sono descrizioni che sembrano già indicazioni per la messa in scena teatrale), si intrecciano letteratura, teatro, vita e autobiografia. «Quella di Giulia Trigona mi sembrò una storia emblematica, il simbolo di un certo mondo femminile che precipita verso un amore “straordinario”, o per meglio dire “mostruoso”», ci racconta Monica Guerritore. Sono le 15.40 del 2 marzo 1911. Una cameriera ha appena accompagnato la giovane nobildonna lungo un corridoio scuro per lasciarla davanti alla stanza numero 8, la più appartata come l’amante aveva chiesto. «Giulia va incontro al suo assassino con la certezza che nulla di cattivo può arrivare da chi ti ha amato, abbassa le difese e accorda l’ultimo appuntamento. Sono tante le domande», continua Guerritore: «Perché va a quell’appuntamento? Cosa cercava, Giulia, in quella squallida stanzetta? Perché decide di fare l’amore con lui dopo averlo lasciato e non amandolo più? Lo fa per disprezzo? Tutto mi diceva che non c’era una spiegazione univoca, una certezza, che la donna manteneva un segreto, una contraddizione che ne faceva un enigma».
Per capire cosa porta Giulia e tante altre donne, del passato ma anche di oggi, a consegnarsi al proprio assassino, ad abbassare le difese, quella storia si amplifica e si chiarisce attraverso altre storie. Otto intensi personaggi femminili con le quali l’autrice si è confrontata portandoli in scena come interprete e regista (come Emma Bovary, Liubov Andreevna di Cecov, la Signorina Giulia di August Strindberg, Marianne di Scene da un matrimonio di Bergman, La Lupa di Verga). Inizia così per la Guerritore un cammino di introspezione, in un luogo del pensiero (il corridoio di quell’albergaccio) attraverso le porte socchiuse delle 7 stanze che precedono la numero 8 dove Giulia troverà la morte. «E mentre quelle figure disincarnate, narrate da grandi scrittori mi agitavano davanti la loro storia, mi domandavo se la loro ombra non ci tenga prigioniere… intrappolate in uno schema odioso di amore e morte, che sembra ripetersi sempre uguale. E se invece fosse da loro che dobbiamo liberarci per inventarci nuove, forti, attente, vigili come lupi…? È questo che sento. È questo che mi piacerebbe colpisse e su cui discutere».
A un certo punto, Monica arriva nella stanza numero 6, quella delle donne ribelli, che dicono no, come Oriana Fallaci e quel no è uno spartiacque. Ed è quel no che conduce all’Amore salvifico, «che nasce dalla Forza e dalla consapevolezza che ci permette di essere finalmente intere, di essere autonome ma anche di amare con abbandono e fiducia uomini che ci amano con altrettanto abbandono e altrettanta fiducia». Il racconto di un femminicidio diventa allora anche un inno alla libertà, all’indipendenza. «Occorre liberarci dall’amore che ci consegna all’altro. Tutta la storia delle donne è vissuta di pazienza, abnegazione, spirito di sacrificio, ma quasi mai di autodifesa. Scontiamo alcuni millenni di una granitica misoginia. Le qualità del femminile hanno tutte a che fare con l’accoglienza, la vita, l’acqua, il mare, la vita. Ma il femminile, per essere completo, ha bisogno del virile. Giovanna D’Arco ha queste qualità. Lei, Eros e Ares, femminile e maschile. Sarebbe necessaria un’educazione al sentimento: di sé e degli altri. I romanzi, il cinema, il teatro, volendo anche la televisione, se usata bene, possono aiutare a farci capire che, come scrive lo psicoanalista Aldo Carotenuto, la seduzione di Pan è oscura e violenta, non entra in relazione con l’Altro, lo fa suo, lo prende, lo possiede. Mentre Eros vuol dire andare verso l’altro. È slancio passionale verso la vita. Raggiungere la consapevolezza è la vera liberazione», conclude l’attrice. «Prenderne consapevolezza può permetterci di lasciare andare le nostre compagne di ieri per specchiarci, nuove, in un racconto del femminile ancora tutto da scrivere. Magari abbandonando il pianto per ballare al ritmo di una ritrovata, leggera dolcezza».
di Cristina Tirinzoni